Brevi note a margine di G. Zagrebelsky, La lezione, Einaudi, 2022
William Chiaromonte
Professore associato di Diritto del lavoro
Università degli Studi di Firenze
Ha ancora senso – in un momento storico in cui, anche sull’onda lunga dell’esperienza della didattica a distanza, sospinta dalla pandemia da Covid-19, si fa un gran parlare di didattica innovativa – soffermarsi ancora sullo strumento “classico” della lezione? Se pare sin troppo scontato dare una risposta positiva a tale quesito, non sono affatto scontate, e anzi sono quantomai utili per chiunque si trovi “in cattedra” (ma non solo), le riflessioni che Gustavo Zagrebelsky, emerito di Diritto costituzionale all’Università di Torino e già presidente della Corte costituzionale, offre nel suo agile saggio La lezione, di recente pubblicato da Einaudi nella storica collana Gli struzzi, e che riprende la «Lezione sulla lezione» tenuta dal giurista torinese nel 2021 in occasione della Biennale Democrazia.
Zagrebelsky muove le sue considerazioni ricordando che uno dei significati del greco λέγειν, dal quale provengono lectio e lezione, rimanda all’idea di raccogliere, radunare, mettere assieme. La lezione è, quindi, anzitutto «una sorta di chiamata a raccolta attorno al sapere» (p. 4) di più persone, tendenzialmente dal carattere pubblico e all’interno di un’aula. Ed è interessante l’etimologia anche di quest’ultimo lemma, che richiama l’αὐλός, il flauto, e che quindi rimanda al luogo caratterizzato dalla capacità del docente di «suscitare negli studenti la capacità di vibrare come in presenza del suono del flauto» (p. 76), il che si contrappone a quella frustrante sensazione di «parlare ai muri» che talvolta si sperimenta, nostro malgrado, facendo lezione.
A dare corpo alla lezione sono anzitutto le parole, attraverso le quali «la realtà esterna entra nella nostra vita e, contemporaneamente, la nostra vita diventa comunicabile, entra a far parte della realtà esterna, si socializza» (p. 11). Il giurista torinese invita a utilizzare con cautela le parole, «sapendo che il veleno dell’equivoco è sempre in agguato» (p. 20), ricordando d’altra parte – come insegnava don Milani nella sua Lettera a una professoressa del 1967 – che è il sapersi esprimere e il saper comprendere le espressioni altrui che ci rende uguali. La lezione genera, dunque, un tempo e un luogo in cui le parole si scambiano fra chi insegna e chi apprende, circolano, dando vita alla cultura, come «vera e propria “coltivazione” di un terreno fecondo che nutre la comunione di esseri che vivono insieme» (p. 25).
Le parole, dette e ascoltate a lezione, a cosa servono? E in cosa dovrebbe consistere una lezione? In particolare, Zagrebelsky si (e ci) chiede se esista una contrapposizione fra il trasmettere e lo scoprire, o se queste due dimensioni possano (o forse debbano) coesistere all’interno di una lezione.
La trasmissione delle conoscenze dal docente al discente è certamente una componente tuttora essenziale della lezione, ma con un caveat importante: tenere in massima considerazione l’ammonimento plutarchiano secondo il quale i giovani non vanno considerati vasi da riempire, bensì fiaccole da accendere. Anche perché il rischio è che l’eccessivo narcisismo del docente possa spingerlo ad esibirsi di fronte alla platea dei discenti, rovesciando su di loro valanghe di nozioni al solo scopo di dimostrare di eccellere in un dato campo del sapere e senza, al contempo, preoccuparsi di “accenderli”. Per la sola trasmissione di materiali nella testa degli studenti potrebbe essere sufficiente lo studio di un buon manuale (il che, peraltro, secondo Zagrebelsky dovrebbe precedere la frequenza della lezione). Sia il manuale che la lezione attengono alla didattica, ma fare lezione vuol dire realizzare qualcosa di molto più sofisticato: «la lezione, invece che indicare matasse di materiali, deve suggerire tracce per orientarsi e venirne fuori guardando avanti» (p. 34).
La seconda dimensione della lezione è lo scoprire. A tal proposito, Zagrebelsky fa propria una celebre affermazione del “Leonardo russo”, Pavel Florenskij, secondo il quale la lezione non è un tram che porta da un posto all’altro, bensì – secondo l’antica tradizione peripatetica – una passeggiata con gli amici: ciò che conta davvero non è la destinazione, ma l’itinerario che si percorre. Come ben sa chi ama camminare, l’importante è fare strada, non solo arrivare. Passeggiare, e fuor di metafora fare lezione, dovrebbe significare non procedere necessariamente in linea retta, non incaponirsi a rispettare pedissequamente quanto ci si era ripromessi di dire ex ante, ma essere in grado di cogliere spunti, suggerimenti, parole per intraprendere un sentiero imprevisto, per intavolare una digressione nata sul momento e non preventivata, per poi riprendere il filo e il cammino; e, di conseguenza, non va considerato un fallimento il non aver raggiunto, alla fine della lezione, la meta che ci si era prefissati. Ancora Florenskij ricorda che la lezione non è (solo) un momento informativo (per soddisfare una richiesta informativa, peraltro, basterebbe il manuale!), ma piuttosto un momento «fermentativo» di vivacità e creatività. Del resto, tornando alle etimologie, il termine professore deriva dal greco proφαίνω, cioè far apparire, rendere visibile ciò che prima tale non era.
Un’ulteriore complicazione, per il docente, è data dal tentativo di superare l’alternativa fra informare, cioè trasmettere conoscenze, e formare, vale a dire educare, “ammaestrare”. L’alternativa, sostiene Zagrebelsky, c’è: «il camminare insieme guardandosi intorno, sempre e di nuovo» (p. 64). E siccome il viaggio comporta fatica, primo compito del professore è quello di «smuovere, mettere in marcia con la promessa incerta di qualcosa che ancora non si vede, si potrà vedere in seguito o, forse, mai» (p. 65). La parola del docente, per innescare questo affascinante viaggio, dovrebbe attrarre gli studenti verso l’oggetto della lezione, e così generare in essi passione. «Senza attrazione e passione, l’insegnante ha sbagliato professione e lo studente, l’indirizzo di studio» (p. 67). Avviare la lezione, intraprendere assieme il viaggio che ci porta a prendere le distanze dalle ovvietà e dalle banalità perché possa esserci cultura rappresenta, per Zagrebelsky, «il primo ed essenziale atto di resistenza» (p. 74), al quale non possiamo sottrarci se vogliamo tendere verso l’accrescimento della conoscenza e della coscienza, «verso qualcosa di ignoto che si scioglie via via, fino a raggiungere nuove consapevolezze». Così facendo, la lezione – e, più in generale, la scuola – diventa il momento privilegiato della trasmissione, attraverso le parole, di una serie di contenuti che, però, non devono limitarsi a “colmare il vaso”, ma molto più ambiziosamente ad attivare una tensione, stimolare un interesse, fecondare un’esperienza.
Un’ultima riflessione concerne quello che, quantomeno per gli studenti, rappresenta l’esito prima facie fisiologico della frequenza delle lezioni: gli esami. Per come oggi sono concepiti e condotti, essi finiscono per rappresentare null’altro che «un controllo […] della misura dell’ingombro del vaso o del sacco a cui lo studente si vede ridotto proprio nel momento finale del suo percorso di studio» (p. 95). L’esame è, dunque, uno strumento essenzialmente finalizzato a verificare il possesso da parte dello studente dell’armamentario necessario ad addentrarsi nella materia impartita e, quindi, valutare i risultati dello studio. Se ciò è vero, è facile allora comprendere che la lezione in buona parte non è finalizzata a consentire allo studente di sostenere l’esame (per quello, ancora una volta, basterebbe lo studio del manuale), bensì a mettere in movimento «la curiosità e i movimenti intellettuali», una dimensione «che deve essere lasciata intatta e consegnata alla responsabilità dello studente che si è impegnato nella costruzione della propria personalità» (p. 98). Si tratta di una dimensione che, se da un lato rischia di avere poco a che fare con l’esame, dall’altro rappresenta qualcosa «perfino più importante» (p. 99): proiettare gli studenti ben oltre gli angusti limiti delle conoscenze di base.
Se il filo del prezioso discorso intessuto da Zagrebelsky convince, lo sforzo da compiere ex cathedra è, ancora una volta, quello di far di tutto affinché le fiaccole che ci troviamo davanti possano accendersi. Questo è, probabilmente, il dono più prezioso che possiamo offrire loro: «un’ora sola, un’oretta di amore che la scuola ti ha dato e che tu hai ricevuto può essere tenuta a mente e valere per tutta la vita che resta» (p. 103).