A. Deneault, La mediocrazia, Neri Pozza, Vicenza, 2017, pp. 7-239
Francesca Marinelli
Professoressa associata di Diritto del lavoro
Università degli Studi di Milano Statale
“Mettete da parte i testi difficili, basteranno i libri contabili”. Questo è l’incipit della amara riflessione di Deneault sullo stato della società odierna. Per il filosofo canadese, infatti, stiamo assistendo all’avvento della “mediocrazia”, intesa come esercizio sempre più diffuso del potere da parte di chi ha qualità medie tendenti al banale.
A dimostrazione di tale tesi l’Autore adduce la sempre minor attenzione che viene prestata, di regola, al lavoro ben fatto, tanto che, oramai – rileva Deneault – “si possono preparare i pasti di una lavorazione a catena senza essere nemmeno capaci di cucinare in casa propria, esporre al telefono alcune direttive aziendali senza sapere di cosa si sta parlando, vendere libri e giornali senza neppure sfogliarli”.
Qual è la causa di tale declino? Per Denault, in primis, il sistema di insegnamento e, in particolare, di quello universitario. Per l’Autore, infatti, nel passaggio da una istruzione di élite a quella di massa l’Accademia ha finito, troppo spesso, per cedere alle logiche funzionalistiche del mercato, riducendosi in molti casi a produrre (a qualunque costo) una conoscenza “in serie” dettata dalla necessità delle aziende di avvalersi di manodopera sufficientemente formata da poter eseguire procedure e protocolli standard, anche complessi, ma non abbastanza da correre il rischio di discostarsene.
Ecco dunque, a mio avviso, la riflessione utile in questo nostro percorso sugli orizzonti della didattica: comunque si decida di riformare il sistema di formazione universitario, dobbiamo tenere a mente che la trasmissione del sapere, pur non potendo sottrarsi tout court alle richieste del mercato del lavoro, non può nemmeno essere costretta a piegarsi completamente alle sue logiche. Del resto, come ha scritto benissimo la filosofa ungherese Agnes Heller, non dobbiamo mai dimenticare che con il cosiddetto sapere “inutile” (e, cioè, quello fine a sè stesso) nella vita si può fare tutto, mentre il cosiddetto sapere “utile” (e cioè quello funzionale alla soluzione di problemi) ci permette di fare solo piccole cose; e questo per una ragione molto semplice: mentre il primo tipo di conoscenza ci insegna a pensare, il secondo si limita a trasmetterci nozioni.