Leggendo M. D’Onghia, V. Pasquarella (a cura di), Didattica, law clinic, giustizia sociale e territorio, Cacucci, 2022
William Chiaromonte
Professore associato di Diritto del lavoro
Università degli Studi di Firenze
Il volume, curato da Madia D’Onghia e Valentina Pasquarella, restituisce i risultati dell’intrigante progetto di ricerca interdisciplinare Didattica, law clinic, giustizia sociale e territorio, al cui centro si colloca l’attività della prima clinica legale avviata nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Foggia su I diritti dei senza fissa dimora e dei migranti.
Le tre parti che lo compongono illustrano in maniera molto chiara il percorso teorico-pratico che è stato seguito nella realizzazione della ricerca, a partire dalla scelta di utilizzare il metodo clinico, «partendo, cioè, non dalle norme ma dalle esperienze sul campo, con un approccio di osservazione partecipata volta a sondare l’impatto degli strumenti normativi nella realtà sociale» (p. 71).
La prima parte del lavoro è dedicata a un approfondimento teorico, in chiave interdisciplinare, nella prospettiva giuslavoristica e penalistica, di alcuni temi di stringente rilevanza sociale riconducibili alla questione dello sfruttamento lavorativo. I contributi di Madia D’Onghia (Spunti di riflessione sulle “moderne” forme di sfruttamento lavorativo, p. 3 ss.), Valeria Torre (La filiera dello sfruttamento, p. 21 ss.) e Marcello Oreste di Giuseppe (Caporalato. Una legiferazione, a tutt’oggi, inutile in tema di contrasto allo sfruttamento del lavoro, p. 45 ss.) descrivono in maniera puntuale – ruotando attorno alla fattispecie di cui all’art. 603-bis c.p. – i confini e le caratteristiche del fenomeno, le sue origini storiche, le sue dimensioni quantitative e qualitative a partire «dall’annoso problema della sua definizione o, almeno, della sua distinzione rispetto a fenomeni contigui» (D’Onghia, p. 4), che, nei casi più gravi, possono addirittura integrare gli estremi della riduzione in schiavitù o servitù ex art. 600 c.p.
I tre contributi, anche attraverso un puntuale richiamo alle pronunce giurisprudenziali più rilevanti in materia, essenzialmente penali (l’assenza di significativi contenziosi civili è sintomatica, del resto, delle molte barriere, talune insormontabili, che si frappongono fra i migranti e l’accesso alla giustizia), mettono a fuoco come lo sfruttamento lavorativo rappresenti, oramai, un vero e proprio metodo di produzione, vale a dire una componente strutturale quantomeno di alcuni settori dell’economia italiana (D’Onghia, p. 9; Torre, p. 22).
In assenza di qualsiasi definizione normativa, un’attenzione particolare è dedicata al tema, di grande interesse specie nella prospettiva giuslavoristica, della tipizzazione dello sfruttamento attraverso i c.d. «indici sintomatici di sfruttamento» (di Giuseppe, p. 61 ss.), indici di orientamento probatorio che, però, hanno «fallito chiaramente l’obiettivo di conferire maggiore determinatezza e tassatività alla fattispecie» (Torre, p. 35).
Correttamente si rileva, peraltro, che le forme di lavoro non riconducibili allo schema della subordinazione possano difficilmente acquisire rilevanza ex art. 603-bis, che ruota attorno ad un abuso del potere datoriale (Torre, p. 35). Peraltro, la difficoltà, quando non addirittura l’impossibilità, di imputare correttamente la responsabilità penale laddove si eserciti un potere decisionale si rileva, in particolare, e come hanno già dimostrato alcune inchieste giudiziarie (si pensi al decreto del Tribunale di Milano n. 9/2020, che ha disposto l’amministrazione giudiziaria per Uber Italy), nel mondo della gig economy; come pure non sembra poter fornire un utile strumento per arginare tali fenomeni di “irresponsabilità organizzata” la previsione della responsabilità amministrativa da reato degli enti ex d.lgs. 231/2001.
Sul presupposto che la prospettiva lavoristica e quella penalistica siano animate da intenti diversi, e che il ricorso al diritto penale sia e debba rimanere l’extrema ratio, è interessante notare come, da un lato, D’Onghia inviti i giuslavoristi a «non sottovalutare la portata e la valenza generale e multidimensionale dello sfruttamento» (p. 15) e, dall’altro, Torre affermi che «avamposto della tutela penale è l’effettività del diritto del lavoro» (p. 43), concordando le due autrici sull’insufficienza della norma penale e sulla necessità di approccio multilivello per contrastare il fenomeno, come pure sulla circostanza che l’obiettivo di tutela che ci si poneva non è (ancora) stato raggiunto.
La seconda parte del volume, rivolta alle coordinate della clinical legal education, con particolare riferimento al modello foggiano, in qualche modo rappresenta il “cuore pulsante” della ricerca. Riprendendo gli insegnamenti di Francesco Carnelutti – il cui celebre saggio Clinica del diritto del 1935 è opportunamente riportato, in anastatica, in coda al volume (p. 137 ss.) – ed adattandoli alle specificità del territorio della Capitanata (R. Ciavarella, C. de Martino, Il contesto in cui opera lo sportello legale: le peculiarità del territorio della Capitanata, p. 87 ss.), Valentina Pasquarella descrive la doppia anima, pedagogica e sociale, della clinica legale (La doppia anima della law clinic: modello didattico innovativo e valido strumento di promozione della giustizia sociale, p. 71 ss.), sulla quale si fonda il «ruolo trasformativo» di tale esperienza formativa ed educativa, che ha portato ad affrontare dentro e fuori le aule foggiane i “casi vivi” del diritto.
L’esperienza della clinica legale, avviata nel 2018, è descritta da Francesco Di Noia (L’esperienza della clinica legale su “I diritti dei senza dimora e dei migranti” dell’Università di Foggia, p. 89 ss.), il quale ricorda che la scelta di rivolgersi ai migranti e alle persone senza fissa dimora non è, naturalmente, stata casuale, e anzi ha fatto leva sul fattore ambientale: la prossimità fisica del Dipartimento di Giurisprudenza alla stazione, attorno alla quale gravitano molti senza fissa dimora, da un lato, e il fatto che Foggia sia il capoluogo di una provincia a forte vocazione agricola, dove ogni anno approdano migliaia di lavoratori stagionali stranieri, dall’altro, hanno giocato un ruolo fondamentale nell’individuazione dei “pazienti” della clinica.
Prima di “scendere in corsia”, gli studenti selezionati acquisiscono – anche grazie alla collaborazione con l’associazione Avvocato di strada ODV – le conoscenze e le capacità necessarie per la risoluzione di alcune delle problematiche che maggiormente affliggono migranti e senza fissa dimora, all’approfondimento delle quali è dedicata l’intera terza parte del volume (C. de Martino, Le tecniche di tutela giuslavoristica delle vittime di sfruttamento lavorativo tra prassi e possibili prospettive ermeneutiche, p. 107 ss.; R. Ciavarella, L’indennità di disoccupazione agricola, p. 119 ss.; V. Depalma, L’iscrizione anagrafica dei cittadini comunitari senza dimora, p. 129 ss.). Questa prima fase formativa ha ad oggetto materie che, spesso, restano estranee ai programmi degli insegnamenti impartiti nei corsi di laurea in giurisprudenza. In tal modo, gli studenti arricchiscono il proprio bagaglio culturale e personale, anche in vista del futuro inserimento nel mercato del lavoro, e al contempo sono sollecitati alla cittadinanza attiva.
Alla fase della formazione, dedicata sia alla metodologia clinica, sia all’analisi delle questioni tecnico-giuridiche riguardanti i migranti e le persone senza fissa dimora, e che riserva un importante focus anche alla scrittura giuridica, segue l’attività di sportello, nell’ambito della quale gli studenti affiancano avvocati e tutor nell’ascolto dell’utente, nell’inquadramento giuridico del caso e nella redazione degli atti, stragiudiziali e giudiziali, per affrontarlo. A ciò si affianca l’attività di volontariato, che gli studenti svolgono assieme ai tutor a beneficio di migranti e senza fissa dimora della città.
Il volume dedica un utile spazio anche alla valutazione delle attività sin qui svolte, al fine di verificare l’efficacia dell’esperienza dalla clinica legale, con particolare riferimento al livello di soddisfazione degli utenti, all’esperienza degli studenti, al giudizio di docenti e professionisti che hanno curato le attività cliniche e all’ascolto di alcune realtà associative del territorio. Da tale monitoraggio emerge che il bilancio delle prime edizioni è stato «estremamente positivo, tanto sul piano formativo quanto sul piano sociale» (Di Noia, p. 102).
La descrizione dell’esperienza della clinica è utile anche perché essa mostra plasticamente come si sia riusciti ad applicare in maniera coerente ed efficace le principali coordinate della clinical legal education, secondo le linee guida tracciate dall’European Network for Clinical Legal Education, la più importante rete di cliniche legali a livello europeo, coniugando teoria e pratica del diritto. Fra le righe della narrazione dell’esperienza foggiana, difatti, emergono chiaramente il contesto esperienziale entro il quale gli studenti e i docenti sono chiamati ad operare (i dintorni della stazione ferroviaria e gli insediamenti informali dove vivono, soprattutto d’estate, i migranti), l’attenzione all’approccio metodologico del learning by doing e la sua traduzione valoriale nel perseguimento di un interesse pubblico (l’attività di studio e di sportello svolta dagli studenti assieme ai tutor), la promozione della giustizia sociale e, quindi, la protezione, anche giudiziaria, dei soggetti più vulnerabili (in questo caso, migranti, spesso irregolari, e senza fissa dimora) per agevolarne l’accesso alla giustizia. Come pure non si manca di sottolineare la valenza della clinica quale precipua attività rientrante nella c.d. terza missione – sociale e culturale – dell’università, dal momento che essa consente un’apertura dell’università foggiana (e, in particolare, dei giuristi, in formazione e formati) verso la società, collaborando con quest’ultima e con le varie istituzioni in campo.
Un’interessante riflessione è dedicata, infine, all’utilizzo del metodo clinico, con la sua vocazione pedagogica e sociale, nella prospettiva giuslavoristica, considerata «la connotazione intrinsecamente e ontologicamente sociale di questo settore del diritto positivo» (Pasquarella, p. 82). All’interno della disciplina, come sappiamo, negli ultimi anni è stata avviata una riflessione sui problemi e sulle prospettive dell’insegnamento giuslavoristico, in relazione non solo ai contenuti della materia, ma anche alle modalità didattiche attraverso le quali essa è trasmessa agli studenti (si pensi, fra le altre, alle considerazioni sviluppate in seno al gruppo Università e didattica della Labour Law Community). La condivisibile conclusione, sia pur provvisoria, alla quale si giunge è che «recuperare una maggiore vicinanza con i fatti, le situazioni e le esigenze concrete della vita […] diventa un obiettivo strategico per il futuro dell’insegnamento del diritto del lavoro, e la clinica legale – fungendo da cerniera fra professione, accademia e società civile – rappresenta, senza dubbio, uno degli strumenti più idonei a realizzarlo» (Pasquarella, p. 85). La progressiva diffusione dell’insegnamento clinico del diritto anche nella prospettiva giuslavoristica, e il volume che si è brevemente presentato, con le esperienze che ne stanno alla base, vanno indubbiamente in questa direzione.