Qual è l’identità del giudice del lavoro oggi? La visione pan-costituzionalista

Marcello Basilico

Presidente della sezione lavoro del Tribunale di Genova

L’intervista a Marcello Basilico rappresenta la prima delle tre voci che Labour Law Community ha coinvolto per una riflessione sulla identità del giudice del lavoro influenzata dalla compiuta interazione con la carta fondamentale e le fonti sovranazionali. In questo senso, il Presidente della Sezione lavoro del Tribunale di Genova, si sofferma sulla dimensione pancostituzionalista del Giudice del lavoro, con particolare riguardo agli effetti che l’interpretazione costituzionalmente orientata produce sul diritto del lavoro. Il tema è stato affrontato da Francesco Perrone nel post pubblicato lo scorso 7 marzo, che ha illustrato le ragioni dell’indagine volta a verificare i diversi approcci interpretativi oggetto delle domande poste ai giudici intervistati.

 

LLC: Ti riconosci nella categoria di giuslavorista in cui ti abbiamo inserito (pancostituzionalista, pancivilista, paneuropeista)?

MB: Sono rimasto francamente sorpreso dal mio inserimento nella categoria dei giudici pancostituzionalisti. Sorpreso, ma, al contempo, incuriosito. Non credo che la mia attività giuridica – quasi esclusivamente giurisdizionale – meriti di essere ricordata e certamente non al punto da consentire d’inquadrarla in un indirizzo identificabile. Mi sento da sempre un giudice del merito che cerca, faticosamente, di coniugare fatto e diritto, interrogandosi alla fine sulla bontà della risposta di giustizia che capita ogni giorno di fornire a quanti la chiedono.

Se davvero quest’opera ha proiettato l’immagine d’un giudice che, nell’applicare, le norme, tenga sempre al centro la Costituzione, non posso che compiacermene. La Costituzione rimane un riferimento costante, sul piano dell’interpretazione del diritto sostanziale così come nell’applicazione processuale. E sono grato all’ordinamento che, consentendomi di specializzarmi nel settore lavoristico, mi ha permesso di acquisire una buona familiarità coi principi e una qualche coscienza dell’evoluzione normativa, così da potere distinguere, spero, i casi in cui è possibile (meglio, doveroso) imprimere un’accelerazione ermeneutica alla lettura d’una disposizione, da quelli in cui è preferibile un’interpretazioneconservativa del significato che tradizionalmente le si conferisce.

Uso volutamente espressioni atecniche, nel tentativo di abbracciare in poche righe concetti ampi.

In questo preambolo mi siano consentite due precisazioni: non mi sento più pancostituzionalista che paneuropeista, sicché mi ritrovo nella prima definizione solo se inclusiva d’un riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., quale fonte di garanzia costituzionale dei trattati internazionali e meccanismo, in particolare, di accesso ai parametri europei interposti; non posso identificare, in secondo luogo, quella definizione con l’idea d’un esercizio alternativo della funzione giudiziaria, che aveva ragion d’essere cinquant’anni fa nella storica contrapposizione, sul terreno dell’interpretazione, alla giustizia tradizionale. La realtà di oggi è diversa ed è probabilmente irriducibile a categorie radicate in prospettive ideologiche precise.

Rimangono, è chiaro, visioni diversificate nella magistratura – e in quella del lavoro, in particolare – comprese tra due tendenze estreme, che possiamo schematicamente ricondurre, da un lato, all’interpretazione ancorata al dato testuale o, soprattutto, alla volontà del legislatore, e, dall’altro, all’apertura a soluzioni creative, meno attente al rischio di un soggettivismo incontrollato. Più che a un’idea, però, queste opposte tentazioni rispondono a una molteplicità di fattori formativi della cultura del giudice. Penso sia bene averle entrambe presenti, per evitare volta a volta di cadere nell’una o nell’altra. E a questo scopo credo che i principi generali cui s’ispira l’ordinamento, a cominciare da quelli costituzionali, rappresentino una prima guida sicura.

 

 

LLC: Alla luce dell’intersezione tra principi costituzionali, Carte dei diritti fondamentali e diritto positivo, qual è il valore che riveste oggi il principio di soggezione del giudice “soltanto alla legge” sancito dall’art. 101 della Costituzione italiana?

MB: Premessa ovvia, ma mai scontata, è che la soggezione del magistrato solo alla legge rimane la garanzia imprescindibile della sua indipendenza.

Ai fattori d’interferenza con la risposta alla domanda ne aggiungerei due metagiuridici, che darei qui per acquisiti non essendovi il tempo per approfondirli: la crescente domanda di giustizia, sotto forma di affermazione di diritti; l’involuzione della tecnica normativa, dovuta alle difficoltà crescenti di concentrare nel Parlamento la normazione primaria e di sistematizzare l’imponente produzione di norme. In un tale contesto, la soggezione alla legge è ragione, innanzi tutto, di grande responsabilizzazione professionale, perché la “legge” è spesso indecifrabile, talvolta difficile da reperire persino con un buon motore di ricerca.

Ma vi è, naturalmente, molto di più. L’intreccio delle fonti, spesso generate da opzioni valoriali diverse, se non opposte, ha complicato la ricerca della disciplina del caso concreto. Nel diritto del lavoro è un fenomeno particolarmente vistoso, perché ad ogni successione di coalizione politica assistiamo a interventi che rispondono a input diversi, spesso in contraddizione con quelli precedenti. L’interpretazione della legge è dunque anche ricerca dei fondamenti comuni nell’ordinamento nei quali inserire il singolo intervento normativo, per darvi il significato sistematicamente più coerente, per quanto possibile.

Le decisioni delle Corti superiori sono a loro volte espressive di questa ricerca, introducendo a loro volta nell’ordinamento veri e propri strumenti interpretativi e applicativi. Penso ad esempio al principio di effettività della tutela, affermato dalla Corte di giustizia UE e divenuto ormai un fattore che permea l’ordinamento, ampliando l’orizzonte argomentativo delle nostre decisioni. La vicenda del “danno comunitario” mi pare emblematica sotto questo profilo ed esempio di dialogo multilivello, ma anche di confronto nella giurisdizione interna.

Proprio questa soluzione creativa ha suggerito alla Cassazione la necessità d’un ammonimento contro il rischio di volerne replicare i presupposti in sede giurisprudenziale, scadendo così in un pericoloso soggettivismo giudiziario che tocchi i fondamenti della responsabilità aquiliana. Credo che in tutti i casi simili il giudice disponga di uno strumento formidabile di chiarezza e spiegazione del proprio assoggettamento alla legge, che è dato dalla motivazione dei propri provvedimenti.

 

 

LLC: In ragione della pressione esercitata sulla giurisdizione da un lato dalle istanze emergenti dalle forze produttive del Paese, dall’altro lato dalle esigenze di protezione sociale avvertite in particolare dai lavori esclusi dalle tradizionali tutele ripristinatorie, ritieni che il giudice del lavoro italiano sia oggi chiamato o forzato a svolgere funzioni di supplenza dirette a colmare vuoti regolativi lasciati irrisolti dai decisori politici?

MB: L’ordinamento giuridico non ammette lacune normative. Il giudice non può astenersi dalla decisione anche di fronte a norme vaghe o contraddittorie perché tradirebbe il compito che gli è assegnato (art. 12, secondo comma, preleggi). Su tale premessa, mi parrebbe scorretto definire supplente la funzione dell’interprete che intervenga pure a fronte d’un legislatore incapace di regolare con tempestività i fenomeni sociali che generano nuove domande di giustizia. Il pensiero nel nostro settore corre subito ai rider, ma non è certamente l’unica fattispecie. Non nego peraltro che per la difficoltà d’identificare la regola del caso concreto molti giudici percepiscano il proprio ruolo in questi termini; ed è una percezione vissuta con apprensione.

Mi pare di potere dire che tale apprensione si colleghi ad una tendenza ad autolimitare i propri spazi interpretativi. E il fatto che la si avverta soprattutto tra i giudici di merito fa pensare che si tratti di una questione generazionale e culturale. E’ una controtendenza, in realtà, rispetto a quanto accadeva nello scorso millennio, quando i giudici del lavoro erano sovente accusati di fare giurisprudenza creativa e, molto spesso, a favore del lavoratore.

E’ possibile che la retorica neoliberista, il dibattito sulla prevalenza delle ragioni dell’economia, la tendenza a legiferare a maglie strette per ridurre gli spazi interpretativi, perfino alcune decisioni della Corte costituzionale sulla difficoltà di un’interpretazione conforme (141 e 221 del 2019, ad esempio) abbiano concorso a generare quella controtendenza, che ha una parte di spiegazione, però, anche nell’attuale gestione dei carichi di lavoro dei magistrati.

Ritengo peraltro che proprio la Costituzione offra ancora molti spazi non abbastanza esplorati, che prima o poi la giurisprudenza lavorista dovrà affrontare: penso ad esempio, ad una lettura dei rapporti tra libertà d’impresa e tutela dei diritti dei lavoratori alla luce dell’art. 41, secondo comma, alla verifica di talune acquisizioni nel settore del pubblico impiego contrattualizzato nell’ottica dei primi due commi dell’art. 97, ad una rinnovata attenzione per l’art. 76, oggi norma diventata quasi cenerentola. Il giudice del lavoro mi sembra atteso dunque da compiti impegnativi, che non sono certo di supplenza.

 

 

LLC: Ritieni o meno che la “certezza del diritto”, intesa come prevedibilità della decisione in base a linee interpretative comuni per assicurare la parità di trattamento, rischi di essere talora riportata al diverso significato di “insindacabilità” da parte del giudice delle scelte delle parti sociali (imprenditoriali e sindacali)?

MB: La certezza del diritto risponde a un’esigenza immanente nell’ordinamento. Ma proprio perché essa deve inscriversi in modo coerente nel sistema complessivo delle fonti, non basta la chiarezza, talvolta apparente, della norma a rendere certa l’applicazione e il risultato della relativa operazione interpretativa. La funzione ermeneutica che deriva dall’art. 101, secondo comma, Cost., non si ferma all’attribuzione di significato, ma passa poi alla regolazione della fattispecie.

Nella materia che impatta più vistosamente sul mondo del lavoro, i licenziamenti, la Corte costituzionale ha restituito centralità al ruolo del giudice, con le sentenze 194/2018 e 150/2020, ritenendo l’automatismo sanzionatorio causa d’inammissibili diseguaglianze senza la ponderazione sul caso concreto, e pur tuttavia ha ammonito, con la sentenza 59/2021, come tale discrezionalità debba esprimersi “in un sistema equilibrato di tutele”.

Questa vicenda dimostra che, per quanto la si voglia vincolare a scelte predeterminate, l’autonomia interpretativa giudiziale non può essere soppressa. Piuttosto la prevedibilità delle decisioni dovrebbe perseguirsi per altre vie, prevalentemente organizzative e processuali: rafforzando qualità e capacità nomofilattica delle pronunce di legittimità; approfondendo lo studio delle tecniche di scrittura e di motivazione, onde rendere più comprensibili e riconoscibili i contenuti dei nostri atti; favorendo la massima circolazione, in senso orizzontale e verticale, dei provvedimenti tra gli uffici giudiziari; riportando il processo a luogo di confronto costante tra il giudice e le parti, affinché la decisione sia la logica conseguenza di quel dialogo e giunga non inattesa. Quest’ultimo obiettivo aumenterebbe il numero dei provvedimenti condivisi, accrescerebbe la fiducia del cittadino nei confronti della giustizia, ridurrebbe il ricorso alle impugnazioni.

In tal senso, l’esperienza della pandemia, incentivando il ricorso a strumenti alternativi di trattazione delle cause basati sul parametro del rispetto del contraddittorio tra le parti, può rivelarsi risolutiva e l’art. 111 Cost., nei suoi primi due commi, potrebbe acquisire una centralità sorprendente nell’impianto delle possibili riforme. In quest’ottica il ripristino di un’oralità vera e mirata – anche con l’ausilio di strumenti tecnologici adeguati, laddove occorra – renderebbe il rito del lavoro la sede ideale per sperimentare le più efficaci prassi innovative.