Qual è l’identità del giudice del lavoro oggi? La visione pan-europeista

Valeria Piccone

Magistrata Consigliere presso la Corte di Cassazione e componente del Consiglio consultivo dei giudici europei

Si conclude con Valeria Piccone, Consigliera di Cassazione della sezione lavoro, il ciclo delle tre interviste di LLC sulla identità del giudice del lavoro oggi. La riflessione si sofferma sul terzo aspetto ricordato da Francesco Perrone nell’intervento che ha preceduto le interviste: la visione pan-europeista del giudice. Viene posta in evidenza la particolare importanza della normativa europea nell’attività interpretativa e nel rapporto interordinamentale, in un contesto in cui il giudice nazionale è sempre più chiamato a porsi di fronte al caso concreto facendo il maggior uso possibile del principio di ragionevolezza.

 

 

 

Ti riconosci nella categoria di giuslavorista (pan-europeista) in cui ti abbiamo inserito? Le parole sono importanti e, pertanto, bisogna intendersi sulle parole. Cosa si intende per giuslavorista paneuropeista?

 

Paneuropa – termine che rimanda al titolo del libro – manifesto pubblicato nel 1923 dal conte austriaco Riccardo Niccolò Coudenhove Kalergi – è, secondo l’enciclopedia Treccani, l’idea di un’unione di Stati europei sorta, si può dire, già al momento del tramonto del concetto medievale di “cristianità”.

Il primo che si sia posto il problema dell’Europa in termini moderni è Enea Silvio Piccolomini, il segretario imperiale che al concilio di Costanza si era formato una coscienza europea e, divenuto papa Pio II, dinnanzi alla gravissima minaccia turca, si appellò all’unità europea, invitando le nazioni d’Occidente ad uno sforzo politico comune.

Passando attraverso il re ultraquista di Boemia Giorgio di Podèbrady che nel 1462 lanciò l’idea di una federazione che avrebbe dovuto condurre alla riconquista di Costantinopoli, la riforma protestante, il “sistema Tilsit” di Napoleone e l’idea degli Stati Uniti d’Europa lanciata da Victor Hugo, bisognerà arrivare al dopoguerra per trovare dei partigiani di una unione sistematica degli Stati europei. Sappiamo che l’Unione in questi termini è soggetto ancora di là da venire e da più parti si evidenziano luci ed ombre di una visione paneuropea stricto sensu.

Ciò che non può più essere revocato in dubbio è che la Comunità – oggi l’Unione – costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini (Corte giust. 5 febbraio 1963, causa C- 26/62 N.V. Algemene Transport-en Expeditie Onderneming van Gend & Loos): una realtà di cui non può non tenersi conto. Il cuore del costituzionalismo è la tutela dei diritti. Su di essa si è forgiata la rule of law e sono nate le stesse Costituzioni.

Come efficacemente osserva Giuliano Amato, ciò che rileva però ad oggi è che questo cuore pulsante del diritto, per secoli appannaggio del diritto statuale interno, sia venuto pretendendo una dimensione più ampia, oltre i confini nazionali, fino a manifestarsi come unico vero cuore del diritto globale. La pretesa delle singole persone di avere, in quanto tali, diritti riconosciuti in ogni luogo del mondo è il superamento del dato storicamente più radicato, sino alla metà del XX secolo, nella vita del diritto: è venuta meno la distinzione fra cives e barbari.

Non può sottacersi che, sempre più di frequente, singole e delicate vicende umane, si trovino al cospetto, in rapida successione, delle Corti interne e di quelle sovranazionali: si pensi, solo per fare un esempio fra i più noti, al caso emblematico dei diritti dell’imputato contumace, oggetto di più sentenze della Corte di Strasburgo, (a partire soprattutto dal caso Sejdovic c. Italia del 2004, della sentenza della Corte costituzionale n. 317 del 2009 e poi dell’arresto della Corte di giustizia nel caso Stefano Melloni c. Ministerio Fiscal (C-399/2011, 26 febbraio 2013).

Nell’ambito dell’Unione ci troviamo al cospetto di una co-giurisdizione che si concretizza nella costante opera interpretativa del giudice interno e nel rinvio pregiudiziale, che la Corte di giustizia definisce la “chiave di volta” del sistema dell’Unione, strumento che da iniziativa discrezionale si trasforma in obbligo qualora la questione interpretativa del diritto europeo si ponga dinanzi a un giudice di ultima istanza.

A nessun giudice è consentito obliterare la giurisprudenza Cilfit Foto-Frost: i giudici di Lussemburgo, in Cilfit,rispondevano al quesito rivolto dalla Corte di cassazione italiana affermando che l’art. 177, 3 comma, (oggi art. 267 par. 2 TFUE) va interpretato nel senso che una giurisdizione le cui decisioni non sono impugnabili secondo l’ordinamento interno, è tenuta, qualora una questione di diritto comunitario si ponga dinanzi ad essa, ad adempiere al suo obbligo di rinvio, salvo che non abbia constatato che la questione non è pertinente o che la disposizione comunitaria di cui è causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte ovvero che la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi; la configurabilità di tale eventualità va valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze di giurisprudenza all’interno della Comunità.  Un obbligo di rinvio pregiudiziale, quindi, cui si può “sfuggire” esclusivamente in assenza di ragionevoli dubbi. La Corte, questo il fulcro della decisione, osserva che l’obbligo di sottoporre alla Corte di giustizia le questioni d’interpretazione del Trattato rientra nell’ambito dell’obbligo di leale cooperazione (oggi sancito dall’art. 4 TUE), al fine della corretta ed uniforme applicazione delle norme comunitarie fra giudici nazionali e Corte di giustizia e che l’art. 177 mira più particolarmente ad evitare che si producano divergenze giurisprudenziali all’interno della Comunità su questioni di diritto comunitario.

Cosa è il ragionevole dubbio? Prima di analizzare come ed in qual misura il principio di ragionevolezza possa – o debba – orientare l’interprete, con riguardo al profilo che qui ci occupa, occorrerà presto domandarsi, in particolar modo per i giudici di ultima istanza, se ed in che termini le conclusioni dell’Avvocato Generale Bobek del 15 aprile scorso sul rinvio del Consiglio di Stato nella vicenda Consorzio Italian Management, possano condurre ad una rivisitazione della giurisprudenza Cilfit. L’Avvocato Generale definisce il rinvio pregiudiziale, le eccezioni ad esso e, soprattutto, il suo enforcement, il can che dorme del diritto dell’Unione europea, quello di cui tutti potrebbero scrivere Trattati ma che, nella vita reale, è meglio lasciare indisturbato. E così, si propone di transitare dall’assenza di ogni ragionevole dubbio in termini soggettivi verso una concezione realmente obiettiva dell’uniforme interpretazione del diritto dell’Unione; in altre parole, il dovere di sottoporre alla Corte un rinvio pregiudiziale non dovrebbe essere focalizzato prioritariamente sulle risposte corrette, quanto sull’individuazione delle giuste domande: una nuova e ancora più impegnativa declinazione dell’impegno già gravoso per l’interprete. Vedremo come procederà la Corte.

 

 

 

Alla luce dell’intersezione tra principi costituzionali, Carte dei diritti fondamentali e diritto positivo, qual è il valore che riveste oggi il principio di soggezione del giudice “soltanto alla legge” sancito dall’art. 101 della Costituzione italiana?

 

Nella società postmoderna, liquida secondo Zygmunt Bauman, anche le fonti sono liquide e difficilmente circoscrivibili e soprattutto si estendono oltre i confini statuali ciò che comporta la necessità di trovare un criterio che consenta di ricondurle ad unità. La peculiarità del sistema è proprio qui, nella ricerca di strumenti volti a garantire la più effettiva tutela giurisdizionale, nell’assenza di gerarchie ed in un continuo confronto fra soggetti tutti coinvolti.

L’ambigua intersezione fra ambito interno e sovranazionale crea talora difficoltà di realizzazione di quella effettività quale criterio di raccordo fra norma interna e norma sovranazionale e fine ultimo della giustizia, imponendo la ricerca di percorsi risolutivi. Giunge così in ausilio la ragionevolezza come strumento metodologico ineliminabile.

Al di là delle evoluzioni del pensiero filosofico che hanno condotto, a partire da Eraclito, agli stoici ed oltre, a collocare nella ragione divina il fondamento di tutte le cose, si è venuta svolgendo, in parallelo, una riflessione volta a valorizzare la ragione umana, intesa come capacità che hanno gli uomini di giudicare le rappresentazioni, accettandole o respingendole. Comunque la si intenda, la ragione si radica in un profilo di socialità, per usare le parole di Nicolò Lipari, cioè nel medesimo terreno sul quale si fonda il diritto e come questo implica una valutazione orientativa dell’azione.

E potremmo dire che questo rappresenta il sostrato dell’attività del giudicare se solo poniamo mente al fatto che Cartesio finirà proprio per identificare nella ragione la “capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso”. Ciò che va sottolineato è come la ragione sia stata concepita non solo come una facoltà, ma come un procedimento specifico di conoscenza.

Tutto l’impianto di Aristotele poggia sul modus procedendi della ragione, non solo allo scopo di conoscere, ma anche di chiarire come si fa a fornire giustificazioni ed in base a quali principi. Che è, a ben guardare, proprio il connotato tipico dell’argomentazione giuridica. Il principio di ragionevolezza come tutte le clausole generali può destare ulteriori incertezze ma va svincolato da qualunque possibilità di ricondurlo a puntuali indici normativi.

La stessa Corte costituzionale, già nella sentenza del 22 dicembre 1989 n. 1130, ha avvertito che “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti o astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore, nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti”.

La ragionevolezza deve tendere ad accertare l’adeguatezza ad un valore di giustizia e va distinta dal controllo di “razionalità” avente di mira la coerenza logica delle classificazioni legislative per richiamare il pensiero di Gustavo Zagrebelsky.

Nel rilievo che sempre più si attribuisce alla ragionevolezza, anche nella gestione dei rapporti fra diverse giurisdizioni, tutte egualmente coinvolte nella soluzione del caso concreto, può cogliersi, a ben vedere, al di là dei tentativi di inglobare la ragionevolezza entro rigidi schemi definitori, l’essenza stessa della giuridicità come storia.

È quel principio, allora, che può rappresentare il focus dell’attività interpretativa del giudice del lavoro nei rapporti fra i diversi protagonisti della scena giuridica interna (legislatore, parti private, parti sociali) e interordinamentale, avendo come scopo ultimo l’effettività della tutela giurisdizionale nel necessario bilanciamento fra contrapposte istanze e confliggenti soluzioni.

 

 

 

Se e in che modo l’integrazione dell’ordinamento nazionale nei sistemi proprio del diritto dell’Unione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo incide sull’identità istituzionale del giudice del lavoro italiano nel suo rapporto con il diritto legislativo?

 

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ha trasportato la dimensione sociale al centro della sfera pubblica europea, riconoscendo i diritti sociali in modo da poterli configurare come un indispensabile nucleo delle relative politiche

In tale ambito la strada fatta è stata molta, tanto che si è arrivati a proporre una revisione in senso ampio dei Trattati, volta a “costituzionalizzare” la dimensione sociale europea attraverso il conferimento espresso all’Unione di competenze in materia di tutela dei diritti sociali e di perequazione, ispirata a una prospettiva di maggiore solidarietà tra Stati (e cittadini) e a un rafforzamento del processo di integrazione politica e sociale.

Le conclusioni del Consiglio dell’Unione Europea sul rafforzamento dell’applicazione della Carta dei diritti fondamentali del 5 marzo 2021 hanno sottolineato non solo l’importanza che la Corte di giustizia riveste in relazione all’interpretazione e all’applicazione della Carta ma, soprattutto, il ruolo fondamentale svolto dagli organi giurisdizionali nazionali nella difesa dei diritti fondamentali: i giudici vengono definiti i veri garanti della Carta, in quanto sono chiamati a garantire una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti ivi sanciti.

Orbene, val la pena sottolineare come il cammino più potente della Carta, nel silenzio delle politiche, lungo i binari del diritto sociale e soprattutto il cammino degli effetti diretti della Carta, che ancora stentano a decollare, ruoti su principi nodali quali l’art. 47, la tutela giurisdizionale effettiva, che sempre più diventa il nodale grimaldello nelle mani della Corte di giustizia ovvero quello di uguaglianza e non discriminazione: si pensi alle sentenze Association de Mediation Sociale, si pensi a Bauer Max Planck: ci dice l’avvocato generale Tanchev nelle proprie conclusioni presentate il 17 marzo scorso nella vicenda degli insegnanti di religione italiani, che  una volta che entrano in gioco gli articoli 21 e 47 della Carta, i giudici degli Stati membri sono tenuti a fare di più. A partire dall’arresto Egenberger è stato chiarito che entrambi gli articoli 21 e 47 della Carta sono sufficienti, di per sé, per conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale, che non necessita di essere precisato mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale. Di conseguenza, il giudice del rinvio è tenuto a disapplicare all’occorrenza le disposizioni del diritto nazionale per garantire l’efficacia dei diritti tutelati dagli articoli 21 e 47 della Carta. E’ in questo modo che sta mutando l’assetto dei rapporti fra giudice e legislatore: il giudice dispone di nuovi strumenti nel proprio arsenale, strumenti che promanano dalle fonti sovranazionali fra le quali spicca la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Se a distanza di venti anni dalla sua promulgazione, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea rappresenta un punto di arrivo rispetto ai percorsi di tutela dei diritti umani che si sono seguiti in Europa a partire dal secondo dopoguerra e un punto di partenza nel riconoscimento di nuove esigenze di protezione,  il perimetro di tale imponente strumento di tutela resta circoscritto alle ipotesi in cui la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo.

Resta allora un problema, quello nodale. Tornano alla mente le parole del Presidente della Corte di giustizia Lenaerts che si è spesso riferito alla Carta come shadow, ombra del diritto dell’Unione. Lui stesso ci ha spiegato che questo significa, in sostanza, che non possono esserci situazioni regolate dal diritto dell’Unione in cui la Carta non si applichi; eppure, puntualizza Lenaerts, Come per qualsiasi ombra, ci sono aree grigie in cui è difficile determinare con precisione dove finisca il buio ed inizi la luce.

E’ ben nota la giurisprudenza Ackeberg Fransson, ed altresì lo è  la giurisprudenza Iida, sappiamo che nelle più recenti pronunzie della Corte si è delineata la distinzione fra ciò che significa implementing the eu law, attuare il diritto dell’Unione e ciò che significa, invece, in the field of the EU law, nell’ambito del diritto dell’Unione come previsto dall’art. 19 TUE. Ma insomma la questione resta aperta ed è questione grave. La Corte di giustizia nell’escludere la ricevibilità di ricorsi pregiudiziali insiste sull’assenza «di un collegamento tra un atto di diritto dell’Unione e la misura nazionale in questione», collegamento richiesto dall’art. 51, paragrafo 1, della Carta di Nizza. Esso, dice la Corte e lo sottolinea la Corte costituzionale, non si identifica nella mera affinità tra le materie prese in esame e nell’indiretta influenza che una materia esercita sull’altra. In consonanza con tali indicazioni, anche la Corte costituzionale opera una rigorosa ricognizione dell’àmbito di applicazione del diritto dell’Unione europea ed è costante nell’affermare che la Carta può essere invocata, quale parametro interposto, in un giudizio di legittimità costituzionale soltanto quando la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo (sentenza n. 194 del 2018, sentenza n. 80 del 2011).  Nondimeno, si assiste nella pratica a percorsi interpretativi peculiari e a tentativi di involgere nel cono d’ombra del diritto dell’Unione spazi sempre più ampi con il rischio di ottenere, poi, l’effetto contrario… Quid juris? Barcamenandosi fra bilanciamento e margine di apprezzamento sul fronte convenzionale e primato ed effetti diretti sul piano dell’Unione, il giudice, organo di base dello spazio giudiziario europeo ed internazionale, resta il fulcro del sistema. Proprio facendo il miglior uso del già richiamato principio di ragionevolezza, è ben in grado di porsi di fronte al caso concreto in modo tanto lucido e, appunto, ragionevole da fugare qualsiasi dubbio di manipolazione, per il tramite dell’interpretazione conforme, dei dati normativi, manipolazione temuta da Antonio Ruggeri e sottolineata, per la sua rischiosità, da Fabrizio Amendola nell’intervista che mi ha preceduta.