La sovranità del limite. Giustizia, lavoro e ambiente nell’orizzonte della mondializzazione

Federico Martelloni

Professore associato di Diritto del lavoro, Università di Bologna

Il testo che segue riproduce l’intervento svolto in occasione del convegno dal titolo “La sovranità del limite. Giustizia, lavoro e ambiente nell’orizzonte della mondializzazione” – Letture Ca’ Foscarine di Diritto e Società, Venezia, 5 maggio 2023.

 

1. Scrutare l’orizzonte della mondializzazione. – Alain Supiot, autore de’ La sovranità del limite(Mimesis editore, 2020), non è solo un eminente giuslavorista francese, ma è notoriamente uno dei più importanti giuristi viventi, peraltro esente da una malattia che non lascia indenni neppure i grandi maestri del diritto del lavoro europeo: l’eurocentrismo. Lo ha dimostrato, forse più che in ogni altra opera, in Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del Diritto (2005), uscito in Italia per Mondadori nel 2006.

Di questa rara e preziosa sensibilità già espressa nel Saggio del 2005 si trova traccia anche nel volume del 2020, e anzi, nella raccolta di scritti in tema di Giustizia, lavoro e ambiente nell’orizzonte della mondializzazione, l’affrancamento da ogni pulsione eurocentrica è giustamente presentata come condizione d’esistenza di un diritto in grado di indicare l’agognato orizzonte: un orizzonte non solo diverso ma diametralmente opposto a quello, angusto, della globalizzazione neoliberista. L’Autore invita, infatti, a “non confondere universalismo e uniformità” e a “non proiettare sul mondo intero categorie di pensiero nate dall’esperienza dei paesi e delle classi sociali più favorite” (p. 142), chiarendo che “per essere stabile ed equo un ordinamento giuridico globale non dovrebbe tendere all’uniformità”, bensì essere concepito come un mosaico di sistemi diversi, ma comunque solidali, ciascuno dei quali “consapevole dei propri limiti e quindi di ciò che lo separa e lo unisce agli altri”. La diversità, per l’Autore, è infatti una “risorsa antropologica fondamentale”.

Anche per questa insolita caratteristica è davvero meritoria l’operazione compiuta dai curatori (Andrea Allamprese e Luca D’Ambrosio): c’era, infatti, bisogno di raccogliere e tradurre le riflessioni di Supiot maturate nel quinquennio 2015-2019; e non meno utile appare la ripubblicazione di un saggio più risalente – quello ospitato nel Cap. 3 che indaga I nuovi volti della subordinazione[1] – perché riassuntivo di molte riflessione su un (nuovo e diverso) diritto del lavoro capace di frequentare il futuro, a partire dalla riarticolazione del rapporto tra subordinazione e autonomia, non già in termini oppositivi o di grande dicotomia della disciplina – per usare una formula cara a Norberto Bobbio – bensì come terminali di un continuum unitario, presidiato da un diritto comune del lavoro: un “nuovo” diritto del lavoro, dunque, capace di tener conto della metamorfosi intervenute nelle forme di esercizio del potere, dentro e fuori dal tradizionale campo d’applicazione della tutela giuslavoristica, ma anche capace di favorire le esigenze di “libertà nel lavoro”, concetto su cui insistono meritoriamente anche Perulli e Speziale nelle loro Dieci tesi sul diritto del lavoro (Il Mulino, 2022).

 

2. Parole chiaveLimitando queste note a brevi osservazioni d’insieme, pare utile isolare alcuni lemmi che nel libro tornano a più riprese in svariati contesti e in diverse accezioni. Lemmi, parole–chiave, concetti, peraltro fortemente intrecciatiattorno ai quali sarebbe utile concentrare la riflessione (non solo) giuslavoristica dei prossimi anni: rischio, responsabilità e solidarietà.

 

2.1. Il rischio. La prima parola chiave, è rischio. Pur trattandosi di una raccolta di scritti, rischio è la parola che più ricorre nelle pagine del volume, riproposta in modo trasversale ai diversi saggi che affrontano, peraltro, temi diversi.

La circostanza non deve stupire. Da un lato, il concetto di “rischio” è familiare, oltre che agli economisti, anche ai giuristi e, in particolar modo, ai giuristi del lavoro.

Innanzitutto l’assenza di rischio rappresenta uno dei tradizionali indici (sussidiari) della subordinazione, atteso che il contratto di lavoro è, in fondo – come noto – anche una convenzione di ripartizione del rischio. Nell’economia del contratto di lavoro, il debitore scambia la soggezione agli ordini con un certo grado di certezza in ordine alla continuità di lavoro e di reddito, mentre l’imprenditore, gerarchicamente sovraordinato ai suoi collaboratori, si fa carico di una molteplicità di rischi e alee del tutto fisiologiche nel quadro di un rapporto caratterizzato da indefettibili connotati personalistici.

Peraltro, anche quei settori della dottrina che, nel contesto normativo odierno, denunciano l’inadeguatezza delle grandi dicotomie tradizionali nel discernere tra area presidiata dalla tutela giuslavoristica e area affidata al diritto comune dei contratti, ne riconoscono la perdurante funzione con riguardo alla diversa allocazione di alcuni rischi: “la dicotomia autonomia-subordinazione” – ha scritto di recente Marina Brollo – pur non potendo “fungere da linea di demarcazione tra garantismo e liberismo”, “resta valida in relazione alla ripartizione del rischio della (im)possibilità della prestazione all’interno del contratto di lavoro”[2].

Su altro piano – come giustamente osserva Supiot, spostando lo sguardo sul versante pubblicistico – anche lo Stato democratico moderno, il Welfare state, è, a suo modo, una convenzione di ripartizione dei rischi, con lo Stato che gioca la parte del “garante di ultima istanza”. Lo attestano, più di ogni altra cosa, il sistema di sicurezza sociale, la previdenza, l’assistenza e il sistema sanitario nazionale; ma osservazioni non troppo diverse potrebbero essere svolte con riguardo al sistema bancario e creditizio.

Ebbene, un primo tratto saliente del processo di globalizzazione neoliberista consiste nell’aver alterato in maniera radicale queste convenzioni di ripartizione dei rischi, tanto sul piano microeconomico, nei rapporti tra impresa e lavoro, quanto sul piano macroeconomico, nel rapporto tra Stato, attori economici e cittadinanza.

Sul piano dell’organizzazione d’impresa si assiste, da tempo, a processi di esternalizzazione e decentramento del rischio.

Ciò avviene, notoriamente, in molti modi: innanzitutto col ricorso forme di lavoro non standard – delle quali il lavoro intermittente costituisce l’esempio più eclatante nell’ordinamento giuridico italiano, posto che tale contratto consente di trasferire sul lavoratore persino i più tradizionali rischi economici o di mercato. In secondo luogo, avviene con la c.d. terziarizzazione della produzione, tramite i processi di outsourcing, attraverso l’allungamento delle catene di fornitura, subfornitura, appalto e sub appalto, anche su scala globale o, ancora, col ricorso a forme di lavoro autonomo, semi-autonomo o parasubordinato quale ultimo anello della catena del decentramento produttivo a favore di una singola persona fisica. Tutte queste forme di ricorso, più o meno indiretto, al fattore lavoro indubbiamente rappresentano un grande strumento di esternalizzazione del rischio e allocazione del medesimo oltre la sfera di pertinenza dell’imprenditore-datore di lavoro. Tanto che alcuni settori della giurisprudenza francese hanno iniziato a derubricare la portata qualificatoria del rischio come indice sintomatico dell’assenza di subordinazione, riconoscendo in talune operazioni contrattuali volute dall’impresa proprio l’intento di allocare il rischio sul prestatore di lavoro, senza tuttavia rinunciare al suo stabile inserimento nell’organizzazione d’impresa.

Passando dal piano microeconomico a quello macroeconomico, la stessa finanziarizzazione dell’economia globalizzata ha rappresentato anche – forse soprattutto – una straordinaria tecnica di aggregazione (e socializzazione) dei rischi, con trasferimento dei medesimi agli Stati sovrani. Ciò è stato del tutto evidente dopo la crisi dei subprime nel 2008, quando le finanze statali si sono rivelate essenziali per condurre le operazioni di salvataggio delle banche[3]; ma è stato altrettanto chiaro nella gestione della pandemia da Covid-19, la cui matrice è indubitabilmente rintracciabile (anche) nei molteplici meccanismi d’interconnessione del mercato globale.

In ultimo, ma non per ultimo, ci sono rischi, innanzitutto sociali e ambientali, derivati dalla globalizzazione neoliberista, che potrebbero essere agevolmente iscritti nel lemma dell’oggettiva e incontrovertibile insostenibilità dell’odierno stadio di sviluppo del sistema capitalistico di produzione, distribuzione e consumo.

Ciò vale per i processi migratori, di cui le c.d. migrazioni ambientali sono divenute componente rilevante, a metà strada – per così dire – tra migrazioni economiche e migrazioni coatte; per la pauperizzazione di interi paesi, privati del controllo democratico dei loro destini; per il costante allargamento della forbice delle diseguaglianze sociali, con conseguente peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro nel nord come nel sud del mondo; per l’aumento delle catastrofi naturali legate al riscaldamento globale, figlio legittimo dello sfruttamento delle risorse naturali e delle emissioni derivanti dal perdurante impiego dei combustibili fossili; persino per i rigurgiti identitari, l’etno-nazionalismo nonché le molte forme di ossessione identitaria spesso associata al negazionismo ecologico.

In estrema sintesi, lo sviluppo senza limiti, proprio del sistema capitalistico globalizzato, trova il suo limite (esterno) nella catastrofe, perché quando il sovrano – colui che è capace di auto-limitarsi, che è garante dei limiti e deve limitarsi per conservare la propria sovranità – rinuncia ad auto-limitarsi ponendo a sé stesso dei limiti (interni), è fatalmente condannato a incontrare invalicabili limiti esterni.

 

2.2. Il binomio responsabilità/irresponsabilità. Il secondo concetto chiave è rappresentato dal binomio responsabilità-irresponsabilità, specificamente approfondito nel Cap. 5 (Dinanzi all’insostenibile: le risorse della responsabilità), ma pure trasversale a diversi contributi.

Non è casuale che il tema della responsabilità si profili come il secondo elemento fondamentale. In fondo il Diritto nel suo insieme, e il Diritto del lavoro in modo particolare, è, da sempre, innanzitutto, un grande sistema d’imputazione di rischi e responsabilità.

Sotto questo profilo, la novità dell’ultimo quarantennio è costituita dal progressivo sganciamento del potere decisorio dalla responsabilità. Supiot parla, giustamente, di vera e propria “scissione” – ma si potrebbe anche parlare di “secessione”, per enfatizzare l’elemento dinamico del processo – tra esercizio del potere economico e imputazione delle relative responsabilità: questa categoria giuridica – dice giustamente l’A. – “è rimasta fuori dai giochi della globalizzazione” (p. 29).

Si badi, anche questo binomio può esse declinato nella duplice dimensione micro e macroeconomica: se nell’organizzazione d’impresa, nelle reti d’impresa, nei gruppi d’imprese e nelle catene globali del valore si assiste, visibilmente, a questo processo di sganciamento – posto che, come scrive Supiot, “in una catena nella quale ogni anello è mosso unicamente dall’esigenza di massimizzare i propri profitti e ridurre i propri costi, nessuno si preoccupa più della ragion d’essere delle imprese, della qualità dei prodotti o dei servizi resi, della loro sostenibilità ecologica o delle condizioni di vita e lavoro di coloro che li producono” (p. 15; p. 127-132; 147 ss.) – anche sul piano istituzionale si possono rinvenire processi analoghi: l’agone politico è colmo di riferimenti a imperativi impersonali idonei a emancipare il decisore politico da ogni responsabilità politica della decisione. Parimenti accade, in modo sempre più ricorrente, che si prescinda dalla – o si operi contro la – volontà popolare nel compimento di scelte strategiche i cui costi sociali e ambientali possono rilevarsi estremamente rilevanti per le comunità di riferimento: valgano, a titolo di esempio, i piani di aggiustamento strutturale imposti dal FMI a paesi c.d. “in via di sviluppo”, dei quali l’esempio argentino del 2001 non è che il più noto, o le ricette imposte dalla Troika a paesi anche europei come la Grecia, in tempi più recenti. Lasciando da parte i casi più noti ed eclatanti, potrebbero svolgersi considerazioni non troppo dissimili in riferimento alla Francia, con riguardo alla recente riforma del sistema pensionistico, o all’Italia, Paese nel quale una lettera di Draghi e Trichet dell’agosto 2011 ha comportato, nel diritto del lavoro, modifiche tanto rilevanti da coinvolgere persino la c.d. gerarchia delle fonti, come dimostra il tenore dell’art. 8, d.l. 138/2011 sulla c.d. contrattazione di prossimità.

 

2.3. La solidarietà, come “concetto-ponte” tra passato e presente, tra diritto pubblico e diritto privato. Il terzo lemma è solidarietà. Si tratta di un principio assolutamente strategico nella riflessione di Supiot, perché potenzialmente idoneo a edificare un ponte tra passato e presente, consentendo di vedere e frequentare l’orizzonte della mondializzazione (Cap. 6). Ma, come vedremo, esso si profila, ancora una volta, pure come concetto ponte tra diritto pubblico e diritto privato.

Da un lato la solidarietà si profila come “elemento base” del costituzionalismo democratico post-bellico. La concezione della sicurezza sociale che abbiamo ereditato dall’industrialismo è un dispositivo di solidarietà di fronte ai rischi e ai casi della vita, quali incidenti e malattia o la maternità, la vecchiaia, la disoccupazione; ma la solidarietà è stato anche un fondamentale vettore di standardizzazione dei trattamenti economici e normativi assicurati dalla contrattazione collettiva di settore. La solidarietà – dice Supiot – “non ha perso nulla del suo valore”, ma va coniugata con nuovi meccanismi di solidarietà a sostegno dell’esercizio delle libertà individuali”: formazione, cura, aggiornamento, transizioni professionali (p. 144).

Dall’altro lato, la concezione della solidarietà, iscritta nella Costituzione dell’OIL, nella Dichiarazione di Filadelfia, nonché nella maggior parte delle Costituzioni post-belliche, non soltanto dei paesi occidentali, si presenta come impegno a mettere in campo “una comunanza di sforzi”  per far progredire la giustizia sociale e ambientale, “senza la quale nessuna pace durevole è possibile” (p. 141).

L’A. declina questa solidarietà su più fronti: tra stati membri dell’OIL, invocando come forma di regolazione una tecnica nuova: quella degli Accordi quadro, poi declinati in accordi nazionali (atteso che “questo metodo consentirebbe di articolare l’eteronomia dei principi riconosciuti dalla società internazionale con l’autonomia degli Stati e delle parti sociali nel modo di attuarli, p. 143).

Un secondo terreno fondamentale è quello della solidarietà tra le organizzazioni internazionali, come condizione indispensabile a coniugare il rispetto del lavoro umano con la protezione dell’ambiente.

Un terzo ambito è quello della solidarietà tra le imprese multinazionali, intesa come ricostruzione del nesso tra diritti e doveri – o, se si preferisce, tra poteri e responsabilità – rotto dalla globalizzazione.

La solidarietà è, peraltro, un lemma estremamente prezioso anche nella grammatica delle tecniche di regolazione, ivi comprese quelle di marca civilistica e giuslavoristica: basti pensare alla tecnica della responsabilità solidale come strumento di co-imputazione delle responsabilità. Una tecnica utile a rendere gli anelli della catena responsabili in solido dei danni sociali ed ecologici che causano.

Detto in altri termini – scrive l’A. – “la mondializzazione invita a pensare dei nuovi meccanismi di solidarietà che, così come fece lo Stato sociale al tempo dell’industrializzazione e del lavoro operaio di massa, consentano di proteggere l’uomo dai rischi derivanti dalla tecnica. Rischi che emergono in un paesaggio decisamente più complesso che corrisponde ormai al pianeta intero ed in cui non è più possibile dissociare natura e cultura o ambiente e società” (p. 29)

 

3. Il bisogno di costruire l’alternativa. Le osservazioni svolte vanno completate attraverso un corollario finale. 

È indubbio che la riflessione di Alain Supiot si inscriva in un filone di pensiero democratico che, specie dopo la crisi del 2008, ha sottoposto a una feroce critica la globalizzazione neoliberista, foriera di diseguaglianze crescenti e disastri sociali e ambientali senza precedenti (da Beck a Judt, da Stigliz a Baumann, da Gallino a Piketty)[4].

Nel La sovranità del limite c’è, tuttavia, qualche elemento peculiare che va segnalato. Innanzitutto c’è un approccio eminentemente giuridico che, sul piano metodologico, prende le mosse da una critica al positivismo giuridico e arriva ad ancorare il Diritto alla Giustizia, senza cedere nulla alla prospettiva giusnaturalistica.

Poi – aspetto assai prezioso – nel pensiero di Supiot si prospetta un’alternativa. Non c’è, insomma, solo la segnalazione dell’urgenza di un’alternativa generica, evocata sulla scorta della catastrofe imminente. C’è anche il tentativo di sostanziare l’alternativa, provando a tracciare le linee guida di un multilateralismo all’altezza della mondializzazione.

In terzo luogo, quest’alternativa si profila radicale, procedendo parallela alla critica di alternative effimere che, ad opinione dell’Autore, non sono realmente tali: è assai severa tanto la critica indirizzata alla prospettiva della responsabilità sociale delle imprese come dimensione salvifica quanto quella rivolta al concetto di sviluppo sostenibile, atteso che, nell’un caso e nell’altro, l’attore pubblico arretra confidando, in eccesso, nella condotta virtuosa di agenti economici che sono, invece, mossi da interessi di natura essenzialmente egoistica.

Supiot dice in proposito – nella Prefazione al volume, scritta nel 2020 – che “difendere allo stesso tempo la globalizzazione e la giustizia sociale ed ecologica è un atteggiamento schizzofrenico, impossibile da sostenere a lungo”. La formula, contraddistinta dal consueto equilibrismo proprio dei leader politici contemporanei, è imputabile al primo ministro francese Macron ma, qualche anno or sono, avremmo potuto serenamente attribuirla a Tony Blair, a Bill Clinton o a tanti altri esponenti delle élite democratiche e progressiste di mezzo mondo. Se il severo giudizio è certamente condivisibile, pare invece troppo ottimistica la previsione sulla matrice di un possibile cambio di passo: “solamente lo shock derivato dal confronto con il reale – scrive l’A. – può destare da un sonno dogmatico”. Il punto è che gli shock, con le crisi che si sono susseguite e accavallate in questo primo scorcio di secolo, sono stati molteplici, eppure non si intravede alcuna radicale inversione di rotta. Ciò, benché si possa ormai dire, senza timore d’essere tacciati di catastrofismo, che, in mancanza di repentine contromisure, abitiamo l’ultimo secolo del genere umano.

Cosa manca, dunque, in una riflessione così “rotonda” e convincente? Quale tessera manca in questo mosaico così compiuto e definito? Manca, forse, il soggetto, sempre che la lacuna possa essere colmata attraverso gli strumenti del mestiere del giurista, il che non è affatto scontato.

A onor del vero traspare, in più parti del volume, una notevole fiducia nei corpi intermedi: al sindacato è affidato il compito di graduare protezioni e tutele per il lavoro contemporaneo, negoziando al fine di addivenire a statuti professionali specifici e discreti, collocati nell’ambito di un diritto comune del lavoro; ai medesimi, ancora, è affidata la declinazione nazionale degli Accordi quadro assunti in sede OIL, da adattare alla specificità dei contesti proprio grazie all’intervento delle parti sociali.

Ciononostante, manca l’individuazione del soggetto (o dei soggetti) in grado di vestire i panni di agente del cambiamento, la qual cosa costituisce un nodo ineludibile. La storia, del resto, ha la forza inerziale dei processi di lunga durata. Il diritto non ha la medesima forza. Per trovarla ha bisogno di affidarsi a un soggetto del tempo. La politica del novecento e, accanto a lei, il più novecentesco dei diritti, ha trovato nell’operaio di fabbrica questo soggetto: un soggetto capace, in qualche congiuntura, di “gettare la politica contro la storia”. Sarebbe troppo facile rilevare che senza lo spauracchio dell’Unione sovietica e, soprattutto, senza il movimento operaio organizzato non avremmo mai conosciuto il compromesso socio-economico di matrice taylorista-fordista che ha caratterizzato i “trenta gloriosi” (1945-1975). Perciò val la pena avanzare un’ipotesi appena più ardita: senza Greta Tumbherg non avremmo osservato il maggior rigore nella lotta ai cambiamenti climatici che ha, finalmente, caratterizzato l’ultima stagione di regole e indirizzi[5].

Insomma, non basta vedere il limite per assumerlo seriamente come tale. È indispensabile che il corpo sociale puntelli quel limite, lo sovraesponga e lo renda invalicabile, se ne è capace.

Questa dimensione, ossia l’assunzione collettiva del tema del limite e, più ancora, l’azione collettiva utile a imporlo su scala globale, rappresenta un altro indefettibile filone di ricerca e d’impegno per i giuristi del lavoro e gli scienziati sociali.

 


 

[1] Supiot A., Lavoro autonomo e lavoro subordinato, in Dir. rel. ind., 2000, pp. 217 ss.

[2] Brollo M., Le dimensioni spazio-temporali dei lavori. Il rapporto individuale di lavoro, Relazione presentata durante le Giornate di Studio Aidlass di Campobasso, 25 e 26 maggio 2023, p. 115.

[3] Gallino L., Il colpo di Stato delle banche e dei governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, 2013.

[4] V. Beck U., Diseguaglianza senza confini, Laterza, Bari, 2011; Judt T., Guasto è il mondo, Laterza, Bari, 2011; Stiglitz J., Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, Torino, 2013; Baumann S., La ricchezza di pochi avvantaggia tutti: falso!, Laterza, Bari, 2013; Gallino L., Finalzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2013; Piketty T., Il capitale del XXI secolo, Bompiani, Milano, 2018.

[5] In tal senso v., da ultimo, Leonardi R., La giusta transizione tra questione sociale e questione ambientale: il potenziale ecologico delle mobilitazioni operaie, in corso di pubblicazione in Dir lav. rel. ind.