Gionata Cavallini
Dottore di ricerca in Diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano. Avvocato giuslavorista del foro di Milano.
3 Febbraio 2021
Nel tradizionale discorso di fine anno del Presidente della Repubblica, appena pochi giorni fa, Sergio Mattarella ha ricordato che «La pandemia ha scavato solchi profondi nelle nostre vite, nella nostra società. Ha acuito fragilità del passato. Ha aggravato vecchie diseguaglianze e ne ha generate di nuove», con un espresso riferimento al fatto che «Una larga fascia di lavoratori autonomi e di precari ha visto azzerare o bruscamente calare il proprio reddito». Significativo che il Capo dello Stato abbia avvertito l’esigenza di nominare, insieme ad altre categorie che hanno sofferto più di altre la pandemia, ma per ragioni e cause storiche diverse (Mattarella cita, poco prima dei lavoratori autonomi, le donne e i disabili), un segmento del mercato del lavoro – i lavoratori autonomi – estremamente eterogeneo e sfaccettato e ridotto ad unità forse solo per un dato tecnico-giuridico, per il fatto di non rientrare nella fattispecie (e nelle tutele) del lavoro subordinato. Commentando uno striscione esibito da ristoratori e commercianti in una manifestazione critiche verso il lockdown nell’autunno del 2020 (che recitava «È facile per chi ha lo stipendio sicuro dire agli altri di stare a casa»), Dario Di Vico ha rilevato come la pandemia abbia acuito quella frattura esistente all’interno del ceto medio italiano, tra dipendenti (soprattutto pubblici) e pensionati, da un lato, e autonomi (intesi in senso ampio e dunque comprensivi dei piccoli imprenditori e commercianti) dall’altro.
Per la verità, anche all’interno del mondo del lavoro dipendente si potrebbero individuare ulteriori linee di faglia tra chi non ha pressoché alcun motivo di temere per la propria stabilità reddituale (il lavoro pubblico), chi può dormire sonni tutto sommato tranquilli (il lavoro privato nell’ambito del terziario avanzato, con ampie possibilità di smart working, e alle dipendenze di aziende solide) e chi invece ha subito o subirà drastici cali reddituali se non – terminato il blocco dei licenziamenti – la perdita del posto di lavoro, sia pure con il paracadute rappresentato dall’integrazione salariale prima e dai trattamenti di disoccupazione poi (il lavoro privato in settori come l’industria, il commercio e il turismo). Fatto questo distinguo, non si può però nascondere che – almeno dal punto di vista delle tutele giuridiche – quella frattura esiste ed è innegabile: il lavoro dipendente gode di una serie di tutele previdenziali che sono invece sconosciute al lavoro autonomo nelle sue varie forme (con la sola, pure significativa, eccezione dell’indennità Dis-coll applicabile ad alcune tipologie di lavoro coordinato e continuativo). Certo si potrebbe ribattere che ciò avviene, anche in una logica attuariale, perché il lavoro subordinato contribuisce al finanziamento del sistema previdenziale in misura superiore rispetto al lavoro autonomo, e che al deficit di tutela previdenziale degli autonomi corrisponde spesso (soprattutto per alcune categorie, si pensi a coloro che rientrano nel regime forfetario) un più favorevole trattamento fiscale e contributivo. L’obiezione, tuttavia, non coglie nel segno, se si considera da un lato che ormai, soprattutto per gli iscritti alle gestioni speciali INPS, le aliquote contributive degli autonomi si avvicinano ormai a quelle del lavoro dipendente (peraltro spesso con contribuzione a carico esclusivo del lavoratore), e che dall’altro, davanti alla pandemia e alle misure per fronteggiarla sono completamente saltati gli schemi di corrispettività tra contribuzione e tutela previdenziale, essendo state di fatto le numerose forme di integrazione salariale Covid-19 finanziate dalla fiscalità generale.
Certo non sono mancate le iniziative volte a “mettere una pezza” sul deficit di tutela previdenziale degli autonomi (il bonus 600 Euro nelle sue varie declinazioni), ma si è trattato di interventi piuttosto affrettati (sia pure comprensibilmente), che non ha fatto i conti con le diverse categorie di lavoratori autonomi, sia con riferimento alla pluralità degli status previdenziali, sia con riferimento al diverso livello di integrazione con il committente. A tali iniziative non ha poi fatto seguito una più generale riflessione sull’opportunità di predisporre stabilmente meccanismi di tutela previdenziale del lavoro autonomo che potessero essere coerenti con le tipologie di rischio che gli sono proprie, né una riflessione su quali possano essere i relativi canali di finanziamento.
L’impressione è che manchi ancora una “cultura previdenziale” del lavoro autonomo e mi pare lo dimostri – se è consentito sconfinare in una dimensione più aneddotica – il caso di un mio collega e amico il quale aveva condiviso con me, nell’aprile del 2020, le sue perplessità circa l’opportunità di chiedere il bonus 600 Euro, cui aveva diritto. La sua obiezione era che, essendo egli stabilmente integrato in uno Studio professionale che aveva continuato a corrispondergli il compenso fisso mensile, egli non aveva in realtà subito alcun danno dalla pandemia, e non gli sembrava quindi “giusto” richiedere l’indennità. La mia risposta, allora, fu di ricordargli che se fino ad allora non aveva ancora subito ripercussioni reddituali dirette a causa della pandemia, quei 600 Euro erano l’unica misura sul tavolo e che, se le cose fossero peggiorate nei mesi successivi, non avrebbe avuto poi accesso né alla cassa integrazione né a trattamenti di disoccupazione, e che quindi non era “sbagliato” richiedere l’indennità. Posto che per gli iscritti alle casse professionali (ma non per gli iscritti all’INPS) l’accesso al bonus era condizionato dalla sussistenza di limiti di fatturato nell’anno precedente (che non doveva essere superiore a 35.000 Euro), il legislatore aveva per così dire “presunto” uno stato di bisogno determinato dalla pandemia, prevedendo che sotto tale soglia il diritto al bonus fosse svincolato da immediate perdite di reddito. Certamente, però, davanti al bonus 600 Euro l’impressione è che sia stato dato “a chi troppo e a chi troppo poco”, posto che hanno fruito del bonus anche partite iva già “ricche” e che non avevano subito alcuna contrazione d’attività, mentre per chi aveva “perso tutto” quei 6oo Euro non erano certo un ristoro adeguato (non a caso i trattamenti di cassa integrazione e di Naspi viaggiano su valori diversi, proporzionali alle retribuzioni perse, salvo il massimale).
Sotto diverso profilo, la “previdenza dell’emergenza” per gli autonomi ha completamente omesso di considerare le specificità del lavoro autonomo economicamente dipendente: proprio l’aneddoto che ho riportato testimonia come esista un’ampia fascia di lavoratori autonomi i cui flussi reddituali dipendono dai destini di un committente principale, che assume la titolarità dell’attività professionale corrispondendo al collaboratore un compenso fisso a cadenza regolari. In disparte la “genuinità” di questo lavoro autonomo nella prospettiva della qualificazione del rapporto – tema interessante ma che, soprattutto con riferimento al mondo libero professionale, si scontra con prassi consolidate e precisi ostacoli ordinamentali (si pensi alla deroga ex art. 2, comma 2, lett. b), d.lgs. 81/2015, o all’ancor più incisiva regola dell’incompatibilità di cui all’art 18 della legge professionale forense) – sarebbe opportuna una riflessione sull’opportunità di trattare diversamente questo tipo di collaborazioni quantomeno dal punto di vista previdenziale, magari ragionando su un’estensione di meccanismi di integrazione salariale sulla falsariga della cassa integrazione per il lavoro dipendente e/o dei trattamenti di disoccupazione nel caso di cessazione del rapporto ad iniziativa del committente.
Se la tutela previdenziale trova il suo referente empirico nel dato fattuale del bisogno del lavoratore (art. 38 Cost.), forse i tempi sono maturi per un’evoluzione della disciplina previdenziale che la possa svincolare dal dato giuridico-formale della qualificazione del rapporto. In questo senso sembrerebbe porsi la novità della «indennità straordinaria di continuità reddituale» («Iscro») che la nuova legge di Bilancio ha istituito in via sperimentale – «nelle more della riforma degli ammortizzatori sociali» – per il triennio 2021-2023 a favore dei lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata Inps (art. 1, commi 386 ss., l. 178/2020). L’ammortizzatore dovrebbe garantire una somma pari al 25 per cento, su base semestrale, dell’ultimo reddito denunciato, in ogni caso compresa tra i 250 e gli 800 Euro mensili. Stringenti però i requisiti di accesso, posto che la misura è destinata solo alle partite iva attive da almeno 4 anni, con reddito annuo fino a poco più di 8.000 Euro e che abbiano subito una riduzione pari ad almeno il 50% del reddito rispetto alla media dei tre anni precedenti. Al di là dei numeri, da cui emerge una “misura-tampone” non particolarmente incisiva, pare apprezzabile l’ispirazione che sta alla base della misura, che al contrario del bonus 600 Euro seleziona sulla base di parametri astrattamente ragionevoli – salvo forse il tetto reddituale previsto – la platea dei beneficiari (ancorché paia discutibile l’esclusione degli iscritti alle casse professionali).
In ogni caso, l’auspicio di chi scrive è che l’annus horribilis che ci siamo appena lasciati alle spalle non venga del tutto dimenticato o rimosso, ma possa invece essere tenuto a mente come quella “scossa” che ha reso evidente la necessità di ripensare lo statuto previdenziale del lavoro autonomo.