L’effettività delle clausole di responsabilità sociale attraverso la tutela della reputazione del sindacato

Adriana Topo

Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Padova

Davide Tardivo

Dottore di ricerca in Diritto del lavoro, Università degli Studi di Padova

18 giugno 2021

Gli accordi transnazionali diretti a garantire standard protettivi validi per tutti i lavoratori della catena produttiva soffrono l’indubitabile problema dell’effettività proprio quando devono trovare applicazione negli ordinamenti meno garantisti dei diritti sindacali e del lavoro.  Tra l’altro, la funzione di tali accordi desumibile dalle clausole – come ad esempio assicurare il rispetto dei diritti fondamentali previsti dalle convenzioni dell’OIL, introdurre o rafforzare processi di dialogo sociale –  non è sempre esclusivamente riconducibile a istanze etiche ma ha un significato economico come, ad esempio, la riduzione dei costi di transazione o la limitazione dell’eccessiva depressione delle condizioni lavorative nei luoghi produttivi, depressione dei costi che compromette  la qualità dei prodotti.

Tra le funzioni che tali accordi soddisfano vi è il rafforzamento dell’immagine pubblica dell’impresa quale entità socialmente responsabile. Così come avviene, ad esempio, per la promozione della qualità dei propri prodotti, la pubblicizzazione del proprio impegno in favore dei lavoratori impiegati nella produzione o in favore dell’ambiente rappresenta un elemento di cruciale importanza nella strategia di sviluppo e posizionamento nel mercato del brand aziendale. In altri termini, la stipula di un contratto transnazionale con cui la multinazionale si impegna, ad esempio, a garantire (o a far garantire dai suoi partner commerciali) il rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti da fonti internazionali rappresenta una prova del suo impegno anche sul piano sociale. Attraverso gli accordi sociali, tradotti in iniziative di marketing presso i consumatori, l’impresa punta a collocarsi in una fascia di operatori che include e promette fra le qualità del prodotto anche l’eticità del processo produttivo. Tutto ciò, con il palese obiettivo di intercettare un consumatore incline a orientare i propri acquisti sulla base di valutazioni di carattere non solo materiali.

Più raramente si considerano le conseguenze che discendono da tali patti sulle organizzazioni sindacali che aderiscono all’accordo direttamente o tramite la federazione internazionale cui abbiano conferito mandato. Il sindacato che, all’esito dei negoziati decide di sottoscrivere l’accordo, beneficia anch’esso di visibilità e, se è vero che il rafforzamento della propria posizione in concorrenza con altre associazioni non è necessariamente l’unica ragione d’essere dell’accordo, non si può negare che anche il soggetto collettivo espone all’attenzione dell’opinione pubblica, e non solo dei propri aderenti, sé stesso e la propria capacità d’azione. La credibilità del sindacato è infatti un valore che viene speso in qualunque situazione nella quale l’organizzazione decide di intervenire e, essendo l’azione sindacale essenzialmente espressa nella contrattazione collettiva, nulla più di un contratto non onorato svilisce il ruolo sociale e in definitiva la personalità del movimento. Accade, quindi, che l’associazione, che ha avallato l’impegno socialmente responsabile della multinazionale, concorrendo a incrementarne il valore sociale presso i consumatori, ove non riesca a esigere dalla stessa il rispetto di tali obblighi soffre un indubitabile pregiudizio perché perde di credibilità. Alla luce di tale premessa bisogna capire se le implicazioni potenzialmente negative sopra descritte possano offrire lo spunto per utilizzare lo strumento di tutela capace di superare le plurime criticità che storicamente interessano l’efficacia degli accordi in materia di responsabilità sociale. Può dunque il ricorso all’art. 28 della L. n. 300 del 1970 essere il motore di effettività e promozione della contrattazione collettiva transnazionale? Tale riflessione ha a maggiore valore a cinquanta anni dall’entrata in vigore dello Statuto la lungimiranza del quale merita di essere valorizzata in un contesto economico e sociale nuovo, per l’ampiezza del raggio di azione dell’imprese, ma anche immutato per quanto attiene ai diritti da tutelare. 

La domanda è dunque la seguente: attraverso il diritto d’azione ex art. 28 è dato alle organizzazioni sindacali promuovere l’effettività degli obblighi assunti se la violazione dei diritti si verifica oltre i confini nazionali e ad opera di un’impresa addirittura dotata di una soggettività distinta dall’impresa che ha sottoscritto la clausola di responsabilità? Come possiamo trasformare quello che spesso appare solo come un obbligo di influenza difficilmente valutabile nei contenuti precettivi in una fonte di responsabilità per chi regge i fili del dell’attività di impresa complessivamente intesa?

Una delle prime questione da risolvere è stabilire se la credibilità del sindacato possa essere promossa attraverso il ricorso all’articolo 28 della legge n. 300 del 1970. L’azione di repressione della condotta antisindacale per certo tutela l’azione sindacale anche nelle fasi antecedenti alla contrattazione collettiva, precludendo, ad esempio, al datore la facoltà di rivolgersi direttamente ai singoli lavoratori come interlocutori dove siano già state instaurate relazioni industriali. Il presupposto di tale affermazione è il riconoscimento dell’identità e personalità morale del soggetto collettivo, personalità che può essere soggetta a lesioni a prescindere dalla violazione di obblighi specifici contratti dal sindacato. Oltre all’autonomia patrimoniale e alla libertà di azione, l’ente collettivo, ancorché non riconosciuto secondo le formalità previste dall’articolo 39, c. 4, Cost., ha infatti una propria vita. Corollario di tale identità sono i diritti della personalità. Il diritto vivente è, infatti, andato oltre le previsioni restrittive del Codice civile e, coerentemente con la prospettiva costituzionale che promuove le formazioni sociali nelle quali gli individui esercitano la propria personalità, non limita il riconoscimento dei diritti fondamentali alle sole strutture caratterizzate da forme giuridiche sofisticate. Di qui possiamo ritenere che l’associazione sindacale tipica abbia anche una personalità morale che merita di essere protetta oltre i limiti dell’articolo 2059 c.c. 

Fra i diritti della personalità vi è anche il diritto alla reputazione, condizione soggettiva funzionale alla credibilità del sindacato, e, dunque, alla sua piena libertà di azione. La reputazione, infatti, dà sostanza alla capacità dell’organizzazione di presentarsi agli affiliati, alla controparte datoriale, alle altre associazioni, finanche al regolatore pubblico, come interlocutore affidabile e capace di garantire il rispetto degli accordi conclusi tramite l’esercizio della propria influenza sui lavoratori. La credibilità rappresenta, quindi, un imprescindibile presupposto del libero esercizio dell’attività negoziale: un sindacato credibile potrà più facilmente accreditarsi presso il datore per la definizione collettiva delle regole sul lavoro, potrà accrescere il proprio prestigio presso i lavoratori, incrementando il numero degli affiliati, dando spessore al proprio ruolo nella definizione delle piattaforme rivendicative. Di contro, il sindacato che vede minata la propria credibilità soffre una lesione della personalità morale perché può subire una limitazione dell’efficacia della propria azione di promozione degli interessi collettivi. 

L’inadempimento degli obblighi di controllo e influenza nella catena di produzione assunti nell’accordo transnazionale è idoneo a ledere la personalità del sindacato, integrando, di conseguenza, una condotta antisindacale sulla base del diritto italiano. 

Uno spunto a conferma si trova dalla giurisprudenza chiamata a pronunciarsi tra gli anni ’70 e ’90 sul carattere antisindacale della condotta datoriale tenuta in violazione dei diritti collettivi (o individuali ma con implicazioni sindacali) di matrice negoziale. Si era concluso, infatti, di escludere che la violazione integrasse ex se un comportamento idoneo a violare la credibilità del sindacato, se non per le modalità specifiche della violazione, che avrebbe dovuto necessariamente comportare in concreto, un detrimento della posizione negoziale del sindacato.

Nel caso dell’accordo transnazionale – che pure si discosta dalle ipotesi considerate dalla giurisprudenza interna – l’ utilizzo della responsabilità sociale quale strumento di marketing da parte delle imprese, che beneficiano dell’eco prodotta dall’adozione di strategie socialmente responsabili per promuoversi, rende il sindacato strumentale al buon funzionamento dell’operazione mediatica In queste situazioni, se l’impresa non si attiva per rendere effettivi gli obblighi sociali, il sindacato subisce una lesione all’immagine e perde di credibilità, seppure avendo paradossalmente condiviso l’obiettivo dell’impresa. Può l’ordinamento essere indifferente a tali meccanismi di mercato forse impliciti negli accordi ma spesso palesati dalle strategie di marketing degli operatori economici nei confronti del pubblico comune ma anche nei confronti di chi opera nei mercati finanziari scegliendo di investire in modo sostenibile? In virtù della condivisione di tale rischio da parte del sindacato, dobbiamo davvero domandarci se gli obblighi dell’impresa di vertice non impongano solo un comportamento a favore di terzi – a favore cioè del lavoratore collocato all’estremo opposto della catena di produzione – ma impegnino la multinazionale a proteggere l’organizzazione professionale: circostanza che comporta anche uno specifico diritto di azione esercitabile nel luogo ove la reputazione è lesa. Tale luogo può anche essere diverso da quello in cui la produzione si svolge, vista la potenziale globalità della diffusione delle notizie e considerato che il sindacato stipulante si radica in realtà diverse da quelle nelle quali si svolge l’attività non rispettosa delle clausole sociali, specie se si considera che nell’era dei social media e dell’informazione digitale la credibilità, che pure rappresenta un bene preziosissimo, può essere compromessa agli occhi dell’opinione pubblica anche dall’apparire di una sola notizia, mentre il processo di ricostruzione del profilo morale risulta di gran lunga più difficoltoso in considerazione della permanenza e della risonanza difficilmente controllabili delle notizie sul web.

Certamente, scendendo nei dettagli del ragionamento occorre stabilire se e quale sindacato italiano sia titolare dell’interesse ad agire in relazione a circostanze che tipicamente si verificano all’interno di giurisdizioni diverse. In secondo luogo, è necessario chiarire quale sia l’organismo “locale” del sindacato “nazionale” legittimato ad agire.

L’interesse ad agire per la repressione della condotta antisindacale è stato tradizionalmente interpretato in senso ampio (con sua conseguente attribuzione tanto a soggetti collettivi privi di un legame associativo con gli individui lesi dalla condotta antisindacale, quanto a soggetti collettivi privi di un vincolo negoziale con la fonte contrattuale istitutiva diritto poi violato).

Nel caso di accordo transnazionale, però, i fatti appaiono a prima vista non influenti sul sindacato nazionale. Tale prospettiva va però forse rovesciata perché non rispecchia l’ottica con cui interpretare, in un mondo globale sul piano della circolazione delle informazioni, il principio di libertà sindacale. Per appurare se sussista o meno interesse ad agire avanti al giudice italiano è  necessario considerare che la libertà assegnata al sindacato dall’art. 39 Cost. consente all’ente di determinarne in assoluta autonomia il perimetro della propria azione. Il sindacato è, quindi, libero di scegliere se adoperarsi per la tutela dei soli lavoratori italiani (operanti in tutti o in una specifica categoria o settore), oppure di agire per la salvaguardia di standard globali in favore di tutti i lavoratori per ragioni umanitarie, di regolazione della concorrenza o per la tutela di lavoratori da distaccare nel Paese terzo, ragioni che sono di per se stesse rilevanti e, quindi, meritevoli di tutela. D’altra parte, di una simile libertà gli accordi collettivi transnazionali rappresentano la manifestazione più concreta: il sindacato, in proprio o tramite la federazione internazionale alla quale aderisce e conferisce mandato, definisce l’area della propria azione.

Inoltre, l’interesse ad agire non è dubitabile se si considera il bene giuridico del quale il sindacato italiano invoca tutela diretta mediante l’azione: la propria politica rivendicative a la personalità morale sotto il profilo della credibilità dell’azione. I diritti di lavoratori e sindacati nei Paesi terzi ricevono, quindi, tutela in via ‘mediata’ nel momento in cui il sindacato ottiene il risultato di indurre la multinazionale a rispettare gli standard cui si era obbligata con l’accordo transnazionale, poiché così facendo l’impresa provvederà ad eliminare gli effetti lesivi della condotta antisindacale sulla reputazione del sindacato ricorrente, sindacato che è qui e opera davanti ai nostri occhi anche se rivolti verso l’orizzonte privo di confini geografici del lavoro non protetto.

Per approfondire la questione vedi Topo A. – Tardivo D., Accordi transnazionali, clausole di responsabilità sociale e tutela del sindacato, Lavoro e diritto n. 1 del 2021.

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