Chiara Garbuio
Docente a contratto e assegnista di ricerca, Università Ca’ Foscari Venezia
26 Maggio 2021
Il lavoro agile (nel regime semplificato per la prima volta previsto con il DPCM del 1° marzo 2020) caratterizzerà ancora le giornate di milioni di lavoratori nei prossimi mesi, ed è indubbio che si appresti a diventare, come evidenziano i dati, una cifra strutturale della quotidianità professionale anche nell’era post-pandemica.
Secondo uno studio di Fondirigenti – il fondo interprofessionale per la formazione dei dirigenti- promosso da Confindustria, oltre il 54% delle 14.000 imprese aderenti impiegherà lo smart working anche al termine dell’utilizzo necessitato dall’emergenza. I dati raccolti indicano che manager, quadri e impiegati sono riusciti a conciliare meglio i tempi di vita e lavoro, ma ne ha risentito positivamente anche la produttività individuale e il raggiungimento degli obiettivi. Di contro, sono emerse alcune criticità da tenere in debita considerazione, in particolare l’eccessivo ricorso a call e riunioni, la mancanza di rapporti sociali e di interazioni di gruppo che favoriscano soluzioni creative, ma anche la mancanza di dotazioni ergonomiche e problemi di natura tecnica e di connessione.
Anche il Rapporto Italia 2021, pubblicato da Eurispes il 13 maggio, fotografa un mutamento delle abitudini lavorative, che, nel caso dello smart working, la pandemia ha contribuito in tempi rapidi ad accelerare e radicare. Dall’inizio dell’emergenza sanitaria, lo smart working è stato adottato dal 49% dei lavoratori (poco meno del 5% lo aveva invece adottato prima della pandemia) e più della metà (53%) vorrebbe poter continuare ad adottare una modalità agile di lavoro, che consenta di alternare giorni in ufficio con il lavoro da casa. Anche in questo caso gli intervistati hanno valutato l’esperienza positivamente, evidenziando un buon coordinamento con il team di lavoro e una migliore organizzazione familiare. Allo stesso tempo, più della metà degli intervistati ritiene di essere stata meno efficiente nel lavoro (53,5 %), lamentando la mancanza di compagnia dei colleghi al 64,2% e giornate lavorative più noiose (53,9 %), così come difficoltà pratiche dovute a problemi con la strumentazione e di connessione (34,9 %).
Il decreto cd. Riaperture del 22 aprile, n. 52 ne aveva esteso il ricorso nella modalità semplificata senza la necessità di accordo individuale fino alla fine di luglio, ma l’emendamento, in sede di conversione del Decreto, dovrebbe prorogarlo, come già avvenuto per la Pubblica amministrazione (con il d.l. 30 aprile 2021 n. 56), fino al termine dell’anno e non solo fino alla fine di settembre.
Del resto anche il Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento del Covid negli ambienti di lavoro dello scorso 6 aprile ha raccomandato il massimo utilizzo dello smart working. Più in particolare, i datori privati ne debbono garantire il ricorso qualora le specifiche mansioni del lavoratore possano essere svolte anche dal proprio domicilio o in modalità a distanza. Il Protocollo richiama, da un lato, le disposizioni del DPCM del 2 marzo, che già raccomandava “fortemente” ai datori privati l’utilizzo della modalità agile di lavoro per la prosecuzione delle attività durante e nonostante le limitazioni emergenziali; ribadisce, dall’altro, che lo smart working, in quanto “utile e modulabile strumento di prevenzione”, ben si adatta alla fase di progressiva riapertura e ripresa delle attività. Sottolinea anche la necessità che il datore garantisca al lavoratore e alla sua attività adeguate condizioni di supporto, come l’assistenza nell’uso delle apparecchiature e la modulazione dei tempi di lavoro e delle pause (art. 8).
Per queste ragioni, nel variegato panorama aziendale, le imprese stanno affinando tecniche e strumenti affinché il lavoro agile si adatti alle loro specifiche esigenze economiche e produttive, rispondendo al contempo ai bisogni professionali e relazionali dei lavoratori.
Nel settore bancario, in cui in molti casi le sperimentazioni di lavoro nella modalità agile risalgono a tempi pre-pandemici, lo smart working rimarrà irrinunciabile almeno per due giorni a settimana (Banca Mediolanum e American Express) ma potrebbe divenire un vero e proprio pilastro della strategia aziendale in altri casi (Credem durante la pandemia ha adottato il lavoro totalmente agile per il 94% dei lavoratori); ancora più consistente il ricorso nel settore informatico e delle telecomunicazioni in cui toccherà dal 60% all’80% delle ore lavorate (Vodafone) in base alle aree aziendali, ma può già arrivare a 5 giorni a settimana (Microsoft) o addirittura diventare la regola cui corrisponde, come eccezione, la presenza in ufficio quando e se necessario (Hewlett Packard Enterprise). Dall’estero arrivano anche segnali opposti, come quello di Google che, negli Stati Uniti, ha annunciato di voler riportare progressivamente in ufficio i propri dipendenti per arrivare al mese di settembre in cui vi dovranno trascorrere almeno tre giorni a settimana.
La tendenza, insomma, è di sperimentare modelli ibridi e bilanciati di lavoro in presenza e in modalità agile, nei quali una migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro non comporti un deleterio isolamento. Se, infatti, i problemi tecnici affrontati durante le sessioni domestiche di lavoro possono facilmente essere superati con forniture di strumentazione da parte dell’azienda, gli aspetti legati alla socialità della comunità professionale sono un nodo più complicato da sciogliere. La mancanza di relazioni tra i colleghi e tra il gruppo di lavoro rischia di inficiare la circolazione delle idee, la creatività, il senso di appartenenza, e quindi, a lungo andare, peggiora il processo innovativo e produttivo.
Di contro, isolamento non significa meno lavoro, anzi. Molto spesso, quasi in una sorta di compensazione, al distacco dalla realtà materiale corrisponde un carico eccessivo di lavoro “digitale”, che si traduce in un contatto perenne e alienante con l’attività lavorativa. Ne sono già consapevoli le aziende, che in molti casi – in termini più o meno dettagliati – hanno inserito negli accordi specifiche modalità di disconnessione, invitando i dipendenti a non programmare riunioni in determinate fasce orarie, a non inviare o rispondere alle mail e telefonate al di fuori dall’orario di lavoro, a disattivare la strumentazione in dotazione una volta conclusa la giornata lavorativa.
Ma anche il legislatore è intervenuto. La l. 6 maggio 2021, n. 61, in sede di conversione del d.l. 13 marzo 2021, n. 30, ha introdotto un espresso diritto alla disconnessione in favore del lavoratore che svolge la propria attività in modalità agile. Il comma 1-ter, aggiunto all’art. 2 del Decreto, dispone che, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti e fatti salvi i periodi di reperibilità concordati tra le parti, al lavoratore agile è riconosciuto il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche. L’esercizio del diritto, che “non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”, è necessario al fine di “tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore” e preservarne quindi un complessivo benessere psico-fisico. Rispetto al generico riferimento contenuto nell’art. 19 del d.lgs. n. 81/2017 alle “misure tecniche e organizzative necessarie ad assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche” – misure che in ogni caso devono essere individuate nell’accordo individuale – la disposizione sembra andare oltre. Sembra porsi in linea con la Risoluzione del Parlamento europeo dello scorso 21 gennaio, recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione, adottata per stimolare un intervento legislativo della Commissione in tal senso, che ora più che mai si rende necessario.
L’Europa è ben consapevole che l’utilizzo massiccio del lavoro e degli strumenti digitali durerà ben oltre la fase pandemica e che la “cultura del sempre connesso” può andare “a scapito dei diritti fondamentali dei lavoratori e di condizioni di lavoro eque”, incidendo pesantemente sull’equilibrio tra lavoro e vita privata, sulla sicurezza e sul benessere, sulla salute fisica e mentale.
La previsione espressa di un diritto alla disconnessione nella recente legge di conversione segna un limite invalicabile anche per gli accordi futuri sullo smart working, regolamentando l’uso e arginando l’abuso di una modalità di lavoro ormai consolidata nelle nostre abitudini.