Fabrizio Amendola
Consigliere della Sezione lavoro della Cassazione
23 giugno 2021
Il viaggio di Labour Law community alla ricerca dell’attuale identità del giudice del lavoro prosegue con l’intervista a Fabrizio Amendola, Consigliere della Sezione lavoro della Corte di Cassazione. Partendo dalle considerazioni sulle ragioni dell’indagine svolte da Francesco Perrone nel suo post introduttivo, l’intervistato riflette sul senso e i contorni di un modello interpretativo – quello definito pancivilista – che mette al centro il dato normativo legale, indagando il rapporto tra giudice e legge e il suo manifestarsi nell’articolato processo ermeneutico.
Ti riconosci nella categoria del pancivilista in cui ti abbiamo inserito, che – per usare le parole di Francesco Perrone – “pone al centro dell’interpretazione giuridica il valore del dato normativo legale e ne radica il fondamento sul sostrato filosofico del giuspositivismo”?
Ogni schematismo sconta in partenza il rischio dell’approssimazione, ma sto volentieri al gioco, se può servire a marcare eventuali differenze, ma anche a delimitare il terreno condiviso. Con la premessa che ad una classificazione semplificatoria è inevitabile rispondere con enunciazioni assertive, che richiederebbero ben più compiuti argomenti.
Per provare a spiegarmi inizierei col ricordare Sofocle: infatti la contrapposizione tra Antigone e Creonte ha rappresentato nei secoli il modello universale del conflitto tra diritto positivo e diritto naturale, se non tra legge scritta e giustizia del caso. L’eroina che, per seppellire il fratello, sfida l’editto del re di Tebe ed affronta la condanna a morte; il dissidio perenne tra le ragioni dell’autorità, che deve garantire l’osservanza dei precetti stabiliti per la civile convivenza, e l’esigenza morale di andare oltre la regola posita in virtù di un principio superiore. Infinitamente si è scritto rispetto alle molteplici chiavi di lettura di quel testo senza tempo, ma non molto si è aggiunto a quell’originario nucleo della questione, drammaticamente esaltato nella tragedia e senza che quel dilemma possa dirsi mai definitivamente sciolto.
Tra le esperienze formative, poi, che ricorderò con più piacere vi è stata quella di assistere al dialogo prima tra Paolo Grossi e Natalino Irti, presso l’Accademia dei Lincei, e, più recentemente, tra Nicolò Lipari e Massimo Luciani, a Scandicci. Personalità note della cultura giuridica contemporanea che hanno dibattuto su questi temi da sponde opposte con tutta la conoscenza di vite spese in studi ai quali attingere.
Qui per cenni quelli che a me sembrano i termini essenziali del confronto. Da una parte chi, contestando il dogma della statualità del diritto, ritiene che l’interpretazione sia un procedimento euristico, “inventivo” alla latina, teso a reperire nella fattualità della vicenda la norma regolatrice adeguata al bisogno di giustizia del caso concreto; un procedimento nel quale il giurista non può limitarsi a guardare all’alto di atti di posizione, ma deve volgere lo sguardo al basso di atti di riconoscimento, non deve cioè limitarsi ad analizzare testi, ma abituarsi ad esaminare contesti; in tale processo l’interprete è orientato dai princìpi, enucleabili dalla Costituzione ma anche da valori condivisi emergenti dalle correnti profonde dell’autoregolazione sociale, sicché il giudice, coadiuvato nell’opera percettiva dalla comunità interpretante, deve essere più ragionevole che razionale e le sue decisioni sono sottoposte al controllo democratico di detta comunità di riferimento. Dall’altra parte quanti, invece, rivendicando la non coincidenza tra diritto e morale e l’attuale vigore del principio della separazione dei poteri, attribuiscono a chi ha la legittimazione parlamentare il potere di dettare regole per i concittadini; regole inevitabilmente contenute in testi, le cui parole costituiscono “cancelli” oltre i quali l’interprete, quantunque mosso dai migliori ideali, non può andare, nel senso che deve individuare il significato della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza a ricavare e che ciascuno può raffigurarsi leggendolo; laddove l’applicazione del diritto positivo dia luogo a conseguenze pratiche che appaiano contrarie a sentimenti morali di giustizia sostanziale il giudice ha l’unica strada di verificare se quei princìpi siano stati positivizzati in Costituzione e promuovere, in caso affermativo, un incidente di costituzionalità.
Se mi si chiede a quale impianto teorico io mi senta più vicino, sicuramente propenderei per il secondo approccio, non fosse altro che per il senso di profonda inadeguatezza che il primo compito mi insinuerebbe come giudice; di qui la sostanziale correttezza della collocazione nella categoria che mi è stata assegnata. Con due precisazioni.
Innanzitutto, la distanza tra le opposte visioni viene accentuata attraverso quelli che possiamo definire hard cases, cioè quelle vicende di confine in cui maggiormente si fronteggiano le diverse sensibilità culturali ed infatti tra i teorici della prima sponda si guarda ad esempi quali il caso Englaro (Cass. n. 21748 del 2007) o il caso Renault (Cass. n. 20106 del 2009). Per la mia esperienza sento di poter dire che nella maggior parte del lavoro quotidiano i giudici pacificamente utilizzano quel tanto vituperato arnese del ragionamento sillogistico, che peraltro trova forma nella sapienza aristotelica ed in essa la sua perdurante autorità logica.
In secondo luogo non può esservi in astratto alcuna contrapposizione con il giudice pan-costituzionalista o pan-europeista (per stare al gioco al quale ci siamo prestati), nel senso che gli strumenti dell’interpretazione conforme a fonti sovraordinate costituiscono oramai parte integrante del bagaglio tecnico di qualsiasi giudice e, a mio avviso, fanno corpo anch’essi con il diritto positivo. Piuttosto può talvolta dubitarsi del loro uso in concreto, se – come ho già avuto modo di ricordare – un insospettabile, da questo punto di vista, come Antonio Ruggeri si interroga su “quante volte questo o quel giudice abbia ammantato delle candide vesti dell’interpretazione conforme una sostanziale manipolazione dei dati normativi”.
Alla luce dell’intersezione tra principi costituzionali, Carte dei diritti fondamentali e diritto positivo, qual è il valore che riveste oggi il principio di soggezione del giudice “soltanto alla legge” sancito dall’art. 101 della Costituzione italiana?
Nel definire il rapporto tra il giudice e la legge, la Costituzione prende partito stabilendo precettivamente che ogni giudice è soggetto alla legge e solo ad essa; non ad altri poteri, ma neppure al consenso popolare oppure alla personale costellazione assiologica o al diritto ritenuto da una indistinta comunità interpretante. Lo stesso testo costituzionale ci dice che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” (art. 70 Cost.) ed è la Carta fondamentale a stabilire poi condizioni e limiti entro i quali anche le fonti sovranazionali trovino ingresso nel nostro ordinamento.
Ritengo che Luigi Ferrajoli abbia scritto pagine persuasive contro il creazionismo giudiziario lesivo del principio della separazione dei poteri e della fonte di legittimazione dell’esercizio della giurisdizione da parte dei giudici, perché prospettare il declino del principio di legalità e del positivismo giuridico equivale “a teorizzare il superamento del ruolo della politica, l’abdicazione alle forme della democrazia rappresentativa e il tramonto dello Stato di diritto basato sulla soggezione al diritto dei pubblici poteri”.
Eppure trova ampio seguito e larga fortuna l’enfatizzazione del momento creativo nell’interpretazione, non solo quale spazio ineliminabile imposto dalla necessità di adeguare il diritto all’evoluzione sociale, ma pure come tentazione elitaria di un ceto aristocratico e sapiente, sovente dichiaratamente avverso ad un legislatore che partorisce leggi accusate di essere frutto di maggioranze false o apparenti. Ma se la libera dottrina può pagare il prezzo di mostrarsi militante, il giudice non credo possa, sia per avere giurato fedeltà alle leggi ed alla Costituzione, sia per dovere costituzionale di terzietà, anche in quella sostanza che è l’apparire imparziale.
In generale non si tratta di riesumare la “bouche de la loi” o di rispolverare i dogmi ottocenteschi dell’onnipotenza del legislatore o dell’unità dell’ordinamento giuridico; nessuno oggi disconosce che l’ermeneusi non è un’operazione meccanica, ma un procedimento complesso frutto di una molteplicità di varianti, nel corso del quale l’interprete seleziona diverse opzioni possibili, con un margine di discrezionalità ineluttabile. Tanto più in un contesto in cui, come ha giustamente evidenziato Marcello Basilico che mi ha preceduto, l’intreccio delle fonti di vario livello, ispirate spesso da eterogenee visioni valoriali, unitamente ad una certa involuzione della tecnica normativa, rende lo stesso contenuto del parametro normativo “indecifrabile”.
Si tratta, dunque, di rendere chiaro, attraverso la motivazione del provvedimento decisorio, ogni passaggio ed ogni scelta, anche laddove sia orientata da un principio che va esplicitato; e nella scelta discrezionale è “questione di limiti e di misura”, come scrive Renato Rordorf, secondo il quale, “per quanto si voglia esaltare la creatività del momento interpretativo ed applicativo del diritto ad opera del giudice, occorre ammettere che egli non compie un esercizio senza rete, né potrebbe mai prescindere completamente dal dato testuale senza provocare una rottura insanabile del quadro istituzionale in cui si iscrive lo Stato di diritto”.
Peraltro la nostra materia è densa di spazi lasciati esplicitamente liberi dal legislatore alla faticosa opera di riempimento del giudice-interprete; basti pensare alle clausole generali, concetti intrisi di valenze assiologiche, di cui è così diffusamente percorsa la disciplina lavoristica; ma anche agli ambiti recuperati alla mediazione giudiziale dalle recenti letture della Corte costituzionale in tema di tutele da licenziamenti illegittimi. Non mi pare ci sia il bisogno di occupare anche gli spazi che in democrazia sono riservati al Parlamento, il quale ha il compito proprio, e la correlativa responsabilità per mandato popolare, di contemperare gli opposti interessi o di ritenere gli uni prevalenti sugli altri. Ove si ritenga che il contemperamento o la prevalenza scelti dal legislatore segni un contrasto con princìpi costituzionali, il giudice ha il dovere di ricorrere alla Consulta; “non può – e non deve – sostituirsi al legislatore nell’opera di fissare il punto di bilanciamento tra gli interessi in competizione” (Bin), anche perché la Costituzione non offre unità di misure con cui poter bilanciare i valori che racchiude né predetermina gerarchie assolute, visto che nessun diritto, per quanto fondamentale, è “tiranno” rispetto ad altri (Corte cost. n. 85 del 2013). Ancora di recente il Giudice delle leggi ha ribadito che “il compito di ponderare gli interessi in gioco e di trovare un punto di equilibrio fra le diverse istanze – tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi nel tessuto sociale, nel singolo momento storico – deve ritenersi affidato in via primaria al legislatore, quale interprete della collettività nazionale, salvo il successivo sindacato sulle soluzioni adottate da parte di questa Corte, onde verificare che esse non decampino dall’alveo della ragionevolezza” (Corte cost. n. 221 del 2019).
Piuttosto vale la pena di riflettere sul dubbio, sollevato da taluno (De Luca Tamajo), che la dissonanza rispetto alle scelte politiche conduca l’opera di adeguamento del testo “sino al punto di leggervi quel che non c’è o, peggio, sino al punto da disattendere platealmente, nel nome di una personale gerarchia di valori, una esplicita volontà legislativa e una evidente ratio legis”.
Esiste uno spazio giuridico, e qual è il suo eventuale perimetro, entro il quale il giudice è chiamato ad operare quale promotore di giustizia sostanziale nei casi concreti in cui il summum ius rischi di generare summa iniuria?
Qui sta il nodo cruciale: si può andare oltre la legge per dare al caso la soluzione ritenuta più “giusta”?
Qui, anche, la contrapposizione teorica sul ruolo del giudice, tra chi lo vuole dispensatore di giustizia del caso singolo e chi ritiene che non gli spetti rendere “Giustizia”, ma solo esercitare la giurisdizione, ricercando la soluzione “esatta” (che non vuol dire l’unica possibile) nel compimento di un’attività essenzialmente cognitiva.
Secondo la prima prospettiva la legalità oggi non potrebbe più fare riferimento ad un sistema oggettivo, ma piuttosto è “prassi indirizzata ad un risultato di giustizia” (Vogliotti); un diritto orientato alle conseguenze del caso, che offre la sua soluzione al di là della norma positiva, attingendo a valori da reperire nelle pieghe della realtà giuridica e così consentire, mediante essi, di conformare l’azione allo scopo primario della giustizia sostanziale.
Ma insorgono pressanti gli interrogativi posti da Luciani: chi dà al giudice la sicurezza di conoscere la soluzione “giusta”, al di là di quella “legale”, nel politeismo dei valori in cui siamo immersi? Cosa l’autorizza a pensare di essere in grado da solo di intendere le correnti profonde della società, per poi trarne ispirazione per decidere il caso singolo? Quale fondamento, in ordinamenti come il nostro, avrebbe il reclutamento del giudice professionale una volta che questi si senta autorizzato ad agire da filosofo morale? Che certezza si può mai avere che i propri convincimenti morali siano quelli “buoni” o che anche semplicemente coincidano con quelli del corpo sociale?
Non si tratta di interrogativi di poco conto; aggiungerei come non possa neanche aprioristicamente escludersi che ciascun giudice, quand’anche consapevole dei limiti alla propria azione, al cospetto del caso singolo segua poi il proprio senso di giustizia, andando oltre la legalità formale per scansare quella che reputi una summa iniuria, ma – qui sta il punto ulteriore – senza che nella motivazione vi sia traccia della ragione profonda della scelta, che resta nel segreto della coscienza del decidente, talvolta oscurata al medesimo; ognuno sa quanto le motivazioni possano non rispecchiare fedelmente il percorso reale seguito dal giudice nel prisma delle precomprensioni, consce ed inconsce.
Per questo aspetto “psicologico” della decisione torniamo a Sofocle: da sempre Antigone incarna la giustizia fondata su di un imperativo morale che lotta per un diritto ritenuto fondamentale, rinvenuto in un valore supremo consegnato dalla tradizione; la sua battaglia contro il potere costituito suscita commozione e apprezzamento; l’irriducibile figura ribelle, che non cede di un passo pur di perseguire un fine più alto, affascina in ogni tempo. Diciamolo con franchezza: è più difficile stare dalla parte di Creonte. Anche se il sovrano di Tebe agisce per il bene della città e sa che la polis non può prosperare se le sue leggi vengono violate; egli si ritiene vincolato all’editto emanato, senza favoritismi per il sangue del suo sangue. Eppure, l’ideale di una giustizia superiore, impersonificata da una dolente eroina disposta a pagare il prezzo più alto, esercita tutta la sua attrazione fatale, alla quale è difficile resistere anche per chi indossa la toga.
In queste angosce secolari, non ho da proporre figure identitarie del giudice in generale, e di quello del lavoro in particolare. Se non il suggerimento di avere chiari i termini del problema, ma non la pretesa di risolverlo. Piuttosto un approccio che coltivi paziente l’etica del dubbio, fondata sulla consapevolezza del carattere relativo dell’accertamento giudiziale e senza la presunzione di essere nel possesso monopolistico della verità; vale il rifiuto di ogni arroganza cognitiva che si erga a paladina dell’unica giustizia possibile, in favore della virtù della prudenza, con uno stile sobrio della pratica giudiziaria, soprattutto consapevole della permanente possibilità dell’errore.
Ritieni o meno che la “certezza del diritto”, intesa come prevedibilità della decisione in base a linee interpretative comuni per assicurare la parità di trattamento, rischi di essere talora riportata al diverso significato di “insindacabilità” da parte del giudice delle scelte delle parti sociali (imprenditoriali e sindacali)?
Tra i princìpi più misconosciuti, vi è quello della certezza del diritto, relegato ad una dimensione mitologica irraggiungibile; una finzione illuministica, un inutile orpello ereditato dalla “legolatrìa” del passato, la pretesa impossibile di dominare il futuro. Una catena da cui liberarsi mediante un giudice creativo che non si adegui alle imposizioni del nomoteta di turno; un novello praetor peregrinus, chiamato a bilanciare valori e princìpi secondo l’id quod equum et bonum videbitur.
Rispetto a tali approcci che svalutano il valore della prevedibilità delle decisioni giudiziarie, la mia opinione dissenziente è ferma. Il fatto vero che l’attuale coacervo delle fonti, sovente mal coordinate, frutto di scelte contingenti, dal linguaggio spesso oscuro e ambivalente, renda l’obiettivo della certezza del diritto assai difficile, non significa che il servizio giustizia, nei limiti delle umane possibilità, non debba porsi nelle condizioni di fare whatever it takes per raggiungerlo. Mi pare si trascuri, infatti, che i destinatari delle norme siano innanzi tutto coloro che sono chiamati ad osservarle, i quali, per quanto è possibile, dovrebbero conoscere anticipatamente come conformare i loro comportamenti alle regole del diritto; mentre l’intervento del giudice è solo eventuale e l’affidamento che si pone in lui è anche nella prevedibilità della sua decisione, conforme a quanto in quella regola scritta potesse ragionevolmente leggersi. Non credo ciò abbia a che vedere con il sindacato sul cd. merito imprenditoriale, perché penso giovi ad entrambe le parti di un rapporto di lavoro, ad esempio, sapere in anticipo se una certa condotta possa costituire o meno una giusta causa di licenziamento e, una volta eventualmente insorta la controversia, confidare in una soluzione che riposi su orientamenti giurisprudenziali chiari e tendenzialmente stabili.
Io sto con le parole delle Sezioni unite civili, laddove hanno sancito che l’affidabilità, prevedibilità, uniformità dell’interpretazione delle norme costituisce imprescindibile presupposto di eguaglianza tra i cittadini e di “giustizia” del processo (Cass. SS.UU. n. 23675 del 2014); principio di uguaglianza contenuto nell’articolo 3 della Costituzione, collocato tra i principi fondamentali e che precede anche le disposizioni che regolano l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (artt. 101 e ss. Cost.). Ne risulta investito l’alto magistero della nomofilachia (Corte cost. n. 204 del 1982 e n. 129 del 1986), che “costituisce un valore o, comunque, una direttiva di tendenza immanente all’ordinamento, in base alla quale non ci si può discostare da un’interpretazione del giudice di legittimità […] senza delle forti ed apprezzabili ragioni giustificative” e dunque “una diversa interpretazione giurisprudenziale di una norma di legge rispetto a quella precedentemente affermatasi non ha ragion d’essere allorché entrambi siano compatibili con la lettera della legge, essendo da preferire l’interpretazione sulla cui base si è formata una certa stabilità di applicazione”; non può “l’utente del servizio giustizia essere esposto al rischio di frequenti modifiche degli indirizzi giurisprudenziali con evidenti gravi ripercussioni sulle effettive tutele dei propri diritti pure garantita dall’articolo 24 della Costituzione” (Cass. SS.UU. n. 13620 del 2012; ma v. pure Cass. SS.UU. n. 10864 del 2011; Cass. SS.UU. n. 15144 del 2011; Cass. SS.UU. n. 11747 del 2019).
In tale prospettiva ho già ha avuto modo di condividere con Vincenzo Di Cerbo l’auspicio di una nomofilachia che “eviti la più odiosa delle diseguaglianze perché consumata in nome di quella legge che invece dovrebbe garantire che tutti i cittadini sono uguali innanzi ad essa”.
Parimenti auspico che il mondo accademico possa fornire il suo indispensabile contributo, sottoponendo le motivazioni delle sentenze, di ogni ordine e grado, ad un serrato vaglio critico, affinché verifichi sul campo eventuali aporie argomentative ma disveli anche l’utilizzo distorto o improprio delle tecniche dell’interpretazione.
In questo senso, nel ringraziare Labour Law Community per il cortese invito, formulo alla neonata associazione i miei più sinceri auguri.