Renata Semenza
Professoressa di Sociologia Economica e del Lavoro, Università degli Studi di Milano
15 giugno 2022
Partiamo da una breve premessa. Il concetto di “Europa Sociale”, di per sé alquanto ambiguo, allude in senso generale a una contrapposizione con un’Europa economica: introduce cioè una dimensione sociale in contrapposizione alla dominante visione economica dell’Unione Europea – la cosiddetta Nuova Governance Economica del periodo Europa 2020 – alla quale la componente sociale era stata subordinata.
Nelle scienze politiche si preferisce parlare di Modello Sociale Europeo, la cui sostanza empirica è piuttosto discutibile se si considera che le singole componenti di questo presunto modello – come i quadri istituzionali, le pratiche, i livelli di performance – sono così ampiamente diverse fra i paesi europei che rendono difficile riconoscere un modello unico o uniforme. Comunque sia, il concetto può servire come guida normativa per i policymakers.
Considerando che il Modello Sociale Europeo si fonda su istituzioni che si sono storicamente sviluppate nel corso del Novecento, oggi si pone la domanda su quale ruolo potrebbe o dovrebbe svolgere la politica Europea per rafforzare questo modello e le sue radici storiche. La tesi di autorevoli scienziati della politica e studiosi di welfare state è che il modo di raggiungere un’Europa più sociale non sia la creazione di sistemi di protezione sociale o di contrattazione collettiva di livello sovra-nazionale, che rimpiazzino le esistenti istituzioni nazionali. Il potenziale sociale dell’integrazione europea è strutturalmente limitato e sappiamo per esperienza quanto sia complesso (e in qualche misura anche controproducente) pensare a un’armonizzazione fra sistemi di welfare. Quindi, l’integrazione europea dovrebbe concentrarsi sul potenziamento dei pilastri nazionali del Modello Sociale Europeo. Questa idea abbraccia un’impostazione più di tipo regolativo che distributivo delle risorse, anche se entrambe posso coesistere.
Alla politica sociale Europea sarebbe dunque ragionevolmente affidato il compito di proteggere, coordinare e favorire lo sviluppo delle politiche sociali e del diritto del lavoro negli Stati membri dell’Unione Europea. L’obiettivo è quello di arrivare a una convergenza verso l’alto degli standard sociali fra i paesi dell’UE e il modo di raggiungerlo dovrebbe avvenire attraverso degli standard sociali di base, non assoluti ma relativi, adattati ai singoli contesti e alla luce dell’eterogeneità politico-economica. Un esempio in tale direzione è rappresentato dalla Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea del 2020. Anziché fissare un salario minimo comune europeo, l’UE intende istituire un quadro di riferimento regolativo per salari minimi adeguati in Europa. Tale direttiva non costituirebbe un’unica soluzione valida per tutti ma, al contrario, terrebbe conto delle diverse tradizioni e dei diversi punti di partenza, con l’intenzione di rafforzare il ruolo delle parti sociali e della contrattazione collettiva.
Lungo il cammino verso la costruzione di un Modello Sociale Europeo, alcuni passaggi sono stati considerati dei punti di svolta.
Innanzitutto “le Politiche per l’Occupazione” sono considerate il principale driver dell’Europa Sociale. La Strategia Europea per l’Occupazione (SEO) istituita nel 1997 era stata infatti concepita come uno strumento chiave per affrontare i problemi – gravi e strutturali – della disoccupazione e per bilanciare l’integrazione di mercato e l’integrazione sociale. Tuttavia, secondo molti osservatori, tale strategia (realizzata attraverso i Piani Occupazionali Nazionali – PON) si è via via indebolita ed è stata subordinata alle politiche economiche (questa sopraggiunta subordinazione sembra trasparire ancora oggi dalle forti tensioni fra DG Employment e DG Economy and Finance).
Vediamo allora di capire come il Modello Sociale Europeo abbia recuperato o stia recuperando terreno nell’agenda politica europea sui temi del lavoro e dell’occupazione, rispetto alla una visione economico-centrica, facendo riferimento ad alcuni passaggi chiave e provvedimenti adottati nella fase più recente.
L’antecedente più significativo è stato il lancio, congiuntamente da parte del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione, del European Pillar for Social Rights nel 2017, che consiste in un ventaglio di venti principi sui temi delle pari opportunità e dell’accesso al mercato del lavoro, delle condizioni di lavoro eque e della protezione sociale e inclusione. Alcuni principi erano già stati introdotti in precedenza dal Trattato di Amsterdam (1997), mentre altri sono nuovi, come ad esempio l’adeguamento del salario minimo. Si può dire che l’European Pillar for Social Rights sia stato importante per le politiche dell’occupazione pur avendo in realtà degli obiettivi più ampi, essendo stato immaginato come un compasso per rinnovare la convergenza nell’eurozona. La grande maggioranza dei paesi l’ha accolto favorevolmente, sebbene ci siano delle profonde contrapposizioni sul modo di intendere il modello di “Europa Sociale” fra i paesi scettici sulla regolazione (Regno Unito, poi uscito dalla UE, paesi Scandinavi e in generale i nuovi paesi membri) e i paesi amici della regolazione, paesi continentali e mediterranei.
L’intero dibattito interdisciplinare si è poi concentrato su come il Pilastro Europeo potesse diventare la leva per la costruzione di un modello sociale Europeo, considerando che non è giuridicamente vincolante (legally binding) e che dunque assomiglia piuttosto a una raccomandazione.
Nell’ottica di una “dimensione sociale” europea, il European Pillar for Social Rights, ha contribuito per un verso alla riemersione delle politiche per l’occupazione, infatti molte delle misure adottate sono di fatto incardinate al Pilastro e, per altro verso, ha riaffermato la necessità di garantire il diritto a un’adeguata protezione sociale ai lavoratori autonomi (principio 12). Tale principio era in verità già stato affermato dalla risoluzione del Parlamento Europeo nel 2014 (Social Protection for all, including self-employed workers) che, per la prima volta, sanciva la necessità di un’estensione delle protezioni sociali ai lavoratori autonomi (in particolare quelli non ordinistici e senza dipendenti, che sono quasi del tutto privi di diritti del welfare) al fine di colmare la distanza fra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Ancora oggi per fruire delle tutele e dei diritti di cittadinanza sociale il lavoratore deve essere dipendente (Perulli, Speziale 2022), mentre si fatica a trovare soluzioni risolutive in gran parte dei paesi Europei (Semenza, Pichault 2019), fra un orientamento di estensione di carattere universale delle tutele sociali e un orientamento di carattere selettivo. Il tema del lavoro che abbiamo definito “apolide” (Semenza, Mori 2020), cioè privo di cittadinanza sociale, è ancor più macroscopico e di crescente rilevanza nei settori del lavoro creativo, della conoscenza, nelle prestazioni di servizio organizzati dagli algoritmi e intermediati dalle piattaforme digitali.
Proprio in relazione alla natura particolare di queste nuove forme di lavoro digitale, dobbiamo segnalare un secondo passaggio importante, rappresentato dalla proposta di un Regolamento Europeo sull’Intelligenza Artificiale (European Approach to Artificial Intelligence, 21 Aprile 2021) – documento di 120 pagine e primo di questo genere nel mondo – che sottolinea l’urgenza di intervenire e di stabilire delle procedure di controllo dell’IA sul lavoro umano, all’interno di un quadro difensivo sofisticato e basato su quattro categorie di rischio. Il regolamento contiene due aspetti utili da richiamare. Il primo è che questi sistemi sono stati classificati ad alto-rischio per i lavoratori, poiché il loro controllo di conformità alle regole vigenti e di salvaguardia dei diritti, è affidato interamente all’auto- valutazione del provider. Il secondo riguarda anche il pericolo che possano generarsi degli effetti discriminatori sui lavoratori (discriminazione algoritmica), menzionando di nuovo esplicitamente i lavoratori autonomi e i lavoratori delle piattaforme, e la necessità di proteggerli, a prescindere dal loro status occupazionale. Questo documento costituisce indubbiamente un passo avanti nell’attenuazione della vulnerabilità lavorativa odierna e di fronte a problematiche regolative del tutto nuove.
L’uso dell’IA per assumere, monitorare, a volte controllare, sorvegliare e valutare i comportamenti e i risultati dei lavoratori è altamente discutibile e non può essere dato per accettato solamente se rispetterà i requisiti procedurali proposti. Alcuni paesi membri – tra cui la Spagna – stanno già introducendo nuove regole che garantiscano una trasparenza algoritmica sul lavoro. Il rischio è che specifiche legislazioni nazionali, più protettive dei diritti del lavoro, finiranno per prevalere su questo avanzato strumento di regolazione Europeo e quindi sovranazionale.
Un terzo passaggio rilevante in direzione di un’Europa sociale è il European Social Partners Agreements on Digitalization del 2020. Si tratta di un accordo quadro indipendente, che avvia un processo di partnership trasversale ai settori, fra la principale associazione europea di rappresentanza dei lavoratori (European Trade Union Confederation – ETUC) e alcune associazioni imprenditoriali (Business Europe, CEEP, SMEUnited), allo scopo di adattare l’organizzazione del lavoro alle trasformazioni indotte dalla digitalizzazione. Il testo dell’accordo fornisce un quadro di riferimento congiunto e orientato all’azione, che si sviluppa su quattro fronti: a) le Competenze digitali e la garanzia dell’occupazione, molto centrato sulla formazione, nel duplice senso di upskilling e di reskilling; b) le Modalità di connessione e disconnessione, e quindi il rispetto degli orari, la prevenzione dei rischi di isolamento e così via; c) l’intelligenza artificiale e il principio di controllo umano; d) il Rispetto della dignità umana e il tema della sorveglianza. Importante sottolineare che l’accordo non si limita a elencare dei temi sui quali intervenire, ma propone un metodo di lavoro fondato su di una visione comune e una comprensione condivisa dei fenomeni in corso e delle loro implicazioni sociali.
Sul grande tema dell’adeguamento delle competenze tecnico-professionali, in mercati del lavoro europei dominati dal problema del disallineamento fra domanda e offerta di lavoro, un segnale positivo proviene dall’European Skills Agenda (1 Luglio 2020), ancorata al European Pillar for Social Rights e dedicata alla sostenibilità ambientale. Si tratta di un piano quinquennale collegato all’European Green Deal, da cui poi ha preso avvio il Pact for Skills (10 Nov 2020), che prevede un supporto e dei servizi per tutti gli enti che aderiscono al patto/ network. In questo ambito sono state realizzate delle tavole rotonde in diversi settori, tra i quali agri-food, aerospaziale e difesa, sanità, turismo, micro-elettronica, commercio, tessile, costruzioni, automotive, cultura e industrie creative. Anche in questo caso non si tratta di enunciazione di principi, ma di servizi e fondi stanziati.
Il European Green Deal, il programma di transizione ecologica europeo, affronta il tema degli effetti sociali della just transition sulla qualità della vita delle persone (specie per i nuclei famigliari a basso reddito e socialmente più vulnerabili), sulla perdita di posti di lavoro nei settori inseriti nella tassonomia EU, sui necessari processi di riconversione industriale e di riconversione delle qualifiche professionali, soprattutto nelle aree territoriali più esposte al cambiamento. Come sappiamo la transizione ecologica non sarà un processo socialmente indolore e neutrale, ma avrà delle ripercussioni molto più pesanti sui ceti sociali meno abbienti, su certi settori di attività rispetto ad altri, senza contare le differenze territoriali (si veda a questo proposito il caso emblematico dell’ILVA di Taranto). Per questo motivo, la Commissione, in più occasioni, ha ribadito che è indispensabile accompagnare la transizione ecologica e la profonda riconversione produttiva che essa dovrebbe determinare con misure di carattere sociale, capaci di distribuire in modo meno diseguale i costi del passaggio a energia pulita e decarbonizzazione. Le misure di carattere sociale adottate in questo ambito sono il Fondo sociale per il clima, il Fondo per la modernizzazione (rafforzato) e il Just Transition Fund. Ma qui il campo si allarga ben oltre gli effetti diretti sul lavoro e l’occupazione.
Un ulteriore passaggio da menzionare è stata la Proposta di direttiva sui Salari Minimi Adeguati, presentata dalla la Commissione europea (28 Ottobre 2020), ben nota e dibattuta fra i giuristi del lavoro. In estrema sintesi la proposta mira a stabilire un quadro per migliorare l’adeguatezza dei salari minimi e aumentare l’accesso dei lavoratori alla protezione del salario minimo. Come sappiamo, nella maggior parte degli Stati membri, il solo adeguamento del salario minimo sarebbe insufficiente, anche se la protezione del salario minimo esiste in tutti gli Stati membri dell’UE, o mediante disposizioni legislative (“salario minimo legale”) o tramite i contratti collettivi, come in Italia.
Vi è poi tutto il versante dedicato alle politiche di genere e al rafforzamento della componente femminile nei mercati del lavoro che, durante questi anni di pandemia, ha sofferto in modo particolare e non ha minimamente recuperato i livelli di occupazione precedenti alla crisi sanitaria (Villa 2020). Mi riferisco ad esempio alla Gender Equality Strategy 2020-2025, i cui principi chiave risiedono nel duplice approccio di raggiungere la parità di genere (avvalendosi in modo specifico del Structural Reform Support Programme), puntando a ridurre il divario retributivo e pensionistico, e di estendere la prospettiva di genere applicandola a tutte le politiche dell’Unione Europea (gender mainstreaming).
L’insieme di questi indubbi progressi compiuti sarà sufficiente per modificare la traiettoria neo-liberista che ha trasformato il diritto del lavoro in diritto del mercato del lavoro e il contratto di lavoro in contratto commerciale e di servizio?
Riferimenti
Perulli A., Speziale V. (2022) Dieci tesi sul diritto del lavoro, il Mulino
Semenza R., Mori A. (2020) Lavoro Apolide. Freelance in cerca di riconoscimento, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Semenza R., Pichault F. (2019) The Challenges of Self-employment in Europe. Status, Social Protection and Collective Representation, Edward Elgar
Villa P. (2020) La pandemia ha colpito il lavoro delle donne, www.ingenere.it,