Olivia Bonardi,
Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano
17 gennaio 2023
In attuazione delle previsioni della dir. 2019/1158 relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, il d.lgs. n.105/22 ha introdotto alcune importanti, ancorché ancora insufficienti, novità per quanto riguarda le possibilità di conciliare il lavoro con la necessità di cura dei propri familiari. Anzitutto, il decreto introduce alcune modifiche alla l. n. 104/92, sia sul piano del riconoscimento dei diritti a congedi e permessi per assistenza a disabili, sia sul piano delle tutele avverso le discriminazioni, purtroppo sempre più spesso perpetrate nei confronti dei caregivers. Il decreto, oltre a sistemare alcune pregresse incongruenze normative derivanti dalla stratificazione legislativa, riconosce ed estende la platea dei beneficiari dei permessi ex art. 33, l. n. 104/92 ai partner dell’unione civile e ai conviventi di fatto. Si tratta peraltro di una novità relativa, in quanto al medesimo riconoscimento si giungeva già grazie al co. 20, art. 1, l. n. 76/16, che ha esteso ai partner di unione civile le disposizioni che si riferiscono ai coniugi, mentre per i partner di una convivenza di fatto il diritto era già stato riconosciuto dalla Corte costituzionale.
In secondo luogo, un importante passo avanti consiste nel superamento del c.d. referente unico, figura a suo tempo introdotta dalla riforma Brunetta (l. n. 183/10 e d.lgs. n. 119/2011), che limitava a un solo lavoratore il diritto ai permessi e stabiliva un ordine gerarchico tra i familiari che potevano usufruirne, in contrasto con il principio fondamentale del diritto all’autodeterminazione delle persone disabili sancito ora anche dalla Convenzione Onu del 2006 e in ogni caso desumibile anche dal diritto alla tutela della dignità della persona anche nelle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost. In una prospettiva di condivisione del lavoro di cura si torna quindi alla regola precedente, per cui il diritto ai permessi può essere riconosciuto su richiesta a più soggetti, che possono fruirne in via alternativa tra loro, fermo restando il limite complessivo di tre giorni. Peraltro, non si giunge a una totale liberalizzazione: la libera scelta avviene tra parenti e affini entro il secondo grado, mentre la possibilità di assistenza da parte di parenti e affini entro il terzo grado rimane subordinata a mancanza, decesso, situazioni invalidanti o compimento dei 65 anni di età di quelli entro il secondo.
Inoltre, l’art. 2 del d.lgs. n. 105/22 novella l’art. 42, d.lgs. n. 151/01, riducendo a 30 giorni il tempo necessario per ottenere il congedo biennale di assistenza ed estendendo espressamente anche quest’ultimo al partner di un’unione civile e al convivente di fatto. Incomprensibilmente, però, in questo caso il legislatore non ha ritenuto di intervenire sul rigoroso ordine gerarchico di accesso al diritto, inserendo tuttavia, in fondo alla gerarchia, il parente o l’affine entro il terzo grado.
Queste importanti novità però non sembrano dare adeguata attuazione alle previsioni della direttiva Ue, in quanto sussistono rilevanti discrasie sia con riferimento alla platea dei soggetti beneficiari delle varie forme di permesso e congedo, sia sotto il profilo delle causali per le quali sono concessi. Per quanto i 3 giorni al mese di permesso nazionali siano molti di più, e siano anche retribuiti, rispetto ai 5 giorni annuali non necessariamente retribuiti previsti dalla direttiva europea, questi ultimi sono riconosciuti a tutti i lavoratori con un familiare che necessita “di notevole assistenza o sostegno a causa di condizioni di salute gravi,” e non solo nei casi di assistenza a persona con disabilità grave. Inoltre, la nozione di familiare europea è più ampia. Il d.lgs. n. 105/22 non sembra dare adeguata attuazione nemmeno all’art. 7 della direttiva, che riconosce a tutti i lavoratori il diritto di assentarsi dal lavoro per cause di forza maggiore. Infatti, il diritto già previsto dall’art. 4, l. n. 53/00, ha un ambito di applicazione diverso e più ristretto.
Anche sotto il profilo delle possibilità di accedere a forme di lavoro flessibile, il d.lgs. n. 105/22 presenta novità importanti, ma del tutto insufficienti. L’art. 3, d.lgs. n. 105/22 aggiunge all’art. 33, l. n.104/92, il co. 6 bis, che riconosce ai fruitori dei permessi il diritto di priorità nell’accesso al lavoro agile e ad altre forme di lavoro flessibile, ferme restando le eventuali norme di maggior favore stabilite dalla contrattazione collettiva. Si modifica inoltre, in parte duplicando il riconoscimento del medesimo diritto, l’art. 18, co. 3 bis, l. n. 81/17, estendendo l’obbligo per il datore di lavoro di concedere priorità alle richieste di esecuzione del rapporto in modalità agile, oltre che ai genitori di figli in condizioni di disabilità grave, anche ai titolari dei permessi ex art. 33, l. n. 104/92 e ai lavoratori che siano caregivers ai sensi dell’art. 1, co. 255, l. n. 295/2017 (si utilizza qui una formula solo leggermente più ampia rispetto a quella relativa ai fruitori dei permessi di cui all’art. 33 legge 104). Per quando riguarda il part-time, invece, si modifica l’art. 8, d.lgs. n. 81/15, estendendo il diritto di priorità alla trasformazione del rapporto anche ai prestatori di assistenza che siano partner di un’unione civile o di un patto di convivenza. La platea dei beneficiari del diritto risulta però estremamente limitata e, per quanto la direttiva rinvii agli Stati membri il compito di definire le condizioni di salute gravi da giustificare il bisogno di assistenza, si può dubitare della capacità della formulazione di cui all’art. 8, d. lgs. n. 81/15 di assicurare l’effetto utile della direttiva Ue, così come si può dubitare della conformità al diritto Ue della diversa declinazione del concetto di bisogno di assistenza nelle diverse norme attuative, a fronte della definizione unitaria contenuta nell’art. 3 della direttiva.
Il punto più critico, in ogni caso, consiste nel riconoscimento del diritto sotto forma di accesso prioritario, che sembrerebbe presupporre la sua azionabilità solo ove il datore di lavoro abbia già deciso di negoziare forme di lavoro flessibile. Una simile conclusione non attuerebbe adeguatamente la direttiva, che riconosce il diritto del lavoratore di richiedere modalità di lavoro flessibili e sancisce il corrispondente dovere del datore di lavoro di prenderle in considerazione e di rispondervi in un tempo ragionevole. L’unico modo per interpretare la disposizione nazionale in modo conforme al diritto europeo pare quello di considerare la priorità quale mero criterio da adottare in caso di pluralità di richieste, fermo restando il dovere del datore di lavoro di prendere in considerazione tutte le domande dei prestatori di assistenza e di fornirvi una risposta motivata.
Infine, nella direttiva il diritto alla flessibilità è inteso in senso ben più ampio rispetto all’espressione “forme di lavoro flessibile” utilizzata dal legislatore italiano, che sembrerebbe avere in mente solo il lavoro agile e il part-time. Il considerando 34 della direttiva parla infatti della possibilità per il lavoratore di “adeguare il calendario di lavoro alle proprie esigenze e preferenze personali”. Misure volte a garantire la flessibilità in entrata e in uscita, i cambi di turno o sistemi di calcolo multiperiodale dell’orario di lavoro e le banche delle ore devono ritenersi quindi ricomprese nella formula utilizzata dal legislatore nazionale e parimenti oggetto del diritto di richiesta e considerazione del lavoratore caregiver.
A tutela dei prestatori di assistenza avverso le discriminazioni e le ritorsioni, il d.lgs. n. 105/22 inserisce, nelle diverse disposizioni attributive dei diritti, specifiche clausole protettive. Anzitutto, nella l. n. 104/92 il nuovo art. 2 bis, vieta di discriminare i lavoratori che chiedono o usufruiscono dei benefici di cui all’art. 33 o di quelli di cui agli artt. 33 e 42, d.lgs. n. 151/01, all’art. 18, comma 3-bis della l. n. 81/17, e all’art. 8 del d.lgs. n. 81/15, nonché di ogni altro beneficio concesso ai lavoratori medesimi in relazione alla condizione di disabilità propria o di coloro ai quali viene prestata assistenza e cura. Inoltre, il nuovo co. 3 bis dell’art. 18 l. n. 81/17 e parallelamente, il nuovo co. 5 bis dell’art. 8, d.lgs. n. 81/15 sanciscono espressamente il divieto di sanzionare, demansionare, trasferire o sottoporre ad altre misure organizzative aventi effetti negativi diretti o indiretti sulle condizioni di lavoro i lavoratori che richiedono la modifica del rapporto di lavoro e dispone che le misure eventualmente adottate in violazione del divieto devono considerarsi ritorsive o discriminatorie e pertanto nulle. Ulteriore tutela si realizza con l’estensione ai fruitori dei permessi ex l. n. 104/92 del diritto alla conservazione del posto e al rientro nella medesima unità previsti per i fruitori dei congedi genitoriali dall’art. 56, d.lgs. n. 151/01. Si tratta di previsioni importanti, che tuttavia pongono alcuni problemi applicativi, in quanto si sovrappongono ai generali divieti di discriminazione per disabilità, che si ricorda comprende quella per associazione, di cui al d.lgs. n. 216/03 e alla l. n. 67/06 e per sesso, essendo quest’ultimo stato esteso, con la l. n. 162/21, ai trattamenti meno favorevoli connessi, tra l’altro alle “esigenze di cura personale o familiare”. Senza poter entrare qui nel merito delle complesse questioni che la sovrapposizione di più divieti pone, si sottolinea come le più generali tutele antidiscriminatorie mantengano un livello di tutela più elevato rispetto alle nuove disposizioni, in relazione al regime alleggerito dell’onere della prova e al rito processuale applicabile.
Infine, una importante novità consiste nell’introduzione di sanzioni. Anzitutto si sancisce l’impossibilità di conseguire la certificazione della parità di genere anche nel caso di rifiuto, opposizione od ostacolo all’esercizio dei diritti di cui all’art. 33, l. n. 104/92 o di violazione del diritto di priorità di accesso al lavoro agile e al part-time. È stata inoltre introdotta una sanzione amministrativa per la violazione del diritto ai congedi ex art. 42, d.lgs. n. 151/01, mentre, paradossalmente, la violazione del diritto ai permessi di cui all’art. 33, l. n. 104/92 resta priva di analoga sanzione. Oltretutto, detta norma contiene tuttora la previsione, pleonastica ma significativa, che sancisce la decadenza dal diritto ai permessi in caso di accertamento dell’insussistenza o del venir meno delle condizioni richieste per la loro legittima fruizione. Resta senza risposta il problema, tanto delicato quanto attuale, del frequente ricorso a investigatori privati, per verificare il corretto utilizzo dei permessi, che ha dato spesso luogo a pretestuose e illegittime contestazioni disciplinari a danno di persone già gravate dalla difficoltà di conciliare il lavoro con le esigenze di cura.