Il lavoro digitale: una sineddoche divisiva

Bruno Caruso

Professore ordinario di Diritto del lavoro e Diritto del lavoro dell’UE, Università degli Studi di Catania

2 dicembre 2021

Ringrazio gli organizzatori sia per l’invito, sia per il tema prescelto collocato ai confini estremi dell’attualità. 

Mi limiterò ad alcuni spunti di riflessione da consegnare ai relatori come messaggi nella bottiglia che utilizzeranno come meglio vorranno.

Non è ovviamente facile inquadrare introduttivamente il tema. Il lavoro digitale è la più classica delle sineddoche.

È una parte, per altro amplissima e composita, del tutto, costituito dal mondo che verrà; il quale notoriamente è in rapido e continuo cambiamento. 

E il cambiamento, è quasi banale dirlo, si produce anche in ragione dell’impatto sul modo di vivere e di lavorare di nuove tecnologiche digitali, la cui potenza trasformativa è senza precedenti nella storia dell’homo sapiens e della scienza manipolativa che genera. 

 La digitalizzazione, per altro, va sempre di più di pari passo con l’uso pervasivo dell’intelligenza artificiale, il cui impiego nei processi di lavoro è un autonomo tema ampiamente investigato.

Il lavoro digitale, correlato all’IA, detta dunque direttamente il tema del cambiamento del lavoro umano nell’interazione con la macchina. 

Il rapporto lavoro/tecnica è da sempre al centro della riflessione delle scienze sociali: da Karl Marx già nell’ottocento, alle ricerche di Pollock o di Friedman sull’automazione nella seconda metà del ‘900, alle riflessioni filosofiche di Hannah Arendt o Simone Weil sino ad oggi, con le pioneristiche ricerche di un antropologo come Richard Sennet solo per citare qualcuno.

Si tratta di un tema che si è proposto a volte drammaticamente (si pensi al luddismo), in tutte le fasi cerniere e di accelerazione dello sviluppo moderno e post moderno. 

C’è un segno unificante di tali diverse stagioni di riflessione sul rapporto tra lavoro e tecnica, ed è costituito dalle prospettazioni diadiche, oppositive: vincitori e perdenti, progresso e regresso, saldi occupazionali positivi e negativi, ricchezza e povertà, uguaglianze e diseguaglianze, paure ed esaltazioni, potenza creativa e distruzione anche ambientale ecc.

Oggi si ha la sensazione che le cose non siano così semplici e che la prospettiva oppositiva non sia una chiave di lettura utilizzabile come nel passato. Le ricerche più serie ci dicono che non è facile fare previsioni, perché siamo dinnanzi a qualcosa non solo di nuovo, ma di inaudito, di mai visto, di inimmaginabile sol qualche anno fa. 

 Non riesco a valutare cosa e quanto, ci sia di vero in tale affermazione.

Alec Ross nel suo recente libro, “I furiosi anni venti”, ove tra l’altro ci racconta di tanti esempi di buona impresa e di uso virtuoso delle nuove tecnologie per aumentare la qualità del lavoro umano, cita il fatto che, solo 5 anni fa, erano 17,5 miliardi gli apparecchi connessi alla rete; questo numero è raddoppiato in 5 anni e nel 2025 si stima saranno 75 miliardi. 

La digitalizzazione riguarda ormai tutti i settori anche quelli che non si ritenevano digitalizzabili come l’agricoltura, l’alimentare, la logistica, la moda con la digitalizzazione delle catene di fornitura. 

Con riguardo alla manifattura tradizionale, già da tempo investita dall’automazione, si pensi all’automotive: è di pochi giorni fa la notizia che la Nissan ad aprile del prossimo anno inaugurerà a Tochigi la prima fabbrica totalmente intelligente, in cui anche l’adattamento continuo del prodotto al gusto del singolo consumatore sarà compito dei robot e non più degli umani, e ciò avverrà analizzando autonomamente migliaia di dati raccolti.

In apparente contraddizione a quel che avviene in Giappone, e a dimostrazione di quanto contino ancora le “umane” decisioni sulle tendenze in atto, e che, dunque, non si tratta di processi meccanicamente evolutivi, alla Mercedes-Benz in Germania il management ha deciso, invece, di sottrarre ai robot questa attività di personalizzazione dei prodotti.

Alla Mercedes la personalizzazione dei prodotti è affidata invece all’attività di affiancamento dei robot (i c.d. cobot) di lavoratori con professionalità fortemente aumentate; lavoratori che acquisiscono, in ragione di ciò, grande centralità e autonoma capacità decisionale nell’organizzazione del lavoro e nella gestione dei processi produttivi aziendali.

No so se occorra rimanere sbalorditi davanti a questi processi e a questi dati. Certamente, come giurista, mi sento di dire che siamo di fronte a fenomeni difficilmente inquadrabili in paradigmi e categorie che mantengono tracce di continuità con il passato. 

E mi sento pure di affermare che la discontinuità nel rapporto tra lavoro e tecnica, rispetto ad un passato anche recente, apre oggettivamente lo spazio alla letteratura predittiva e futurologa e questo ovviamente genera vertigini e capogiri anche per chi – come il ceto dei giuristi del lavoro – è abituato a camminare con i piedi saldamente piantati per terra e con uno sguardo sempre sensibile alla tradizione per dirla con Kahn-Freund.

Sono tuttavia convinto che quella dei piedi saldamente per terra debba essere una direttiva che gli studiosi del lavoro digitale, a partire dai giuslavoristi, dovrebbero tener ben presente e ciò non sempre accade se si guarda all’ingente mole di studi, non sempre controllati, che sull’argomento si sono riversati. 

 Con riguardo alla valutazione dei risultati del fenomeno, è da rilevare che posizioni oppositive si registrano non solo in generale, ma anche con riguardo agli effetti sociali del lavoro digitale e i suoi modelli di regolazione. 

Da una parte, ovviamente semplifico, c’è chi enfatizza rischi vecchi e nuovi per i lavoratori digitali: più sofisticate, perché consensuali, forme di precarietà; alienazione tecnologica; sfruttamento intensivo del temp0 di lavoro e anche di non lavoro, attraverso la gratuità delle prestazioni non ostensive degli stessi consumatori/produttori (i c.d. prosumer) e dei dati raccolti; e poi il rischio di controllo panottico; addirittura indebite disposizioni del corpo e della mente a fini produttivi del lavoratore aumentato. 

È la realtà del neo fordismo digitale, di Amazon o delle piattaforme del lavoro on demand, e dei micro lavori di Amazon Turk formalmente indipendenti (il crowdwork degli schiavi del clic incentivato pure come ludico); fenomeni che con molta efficacia ci hanno descritto sociologi come Antonio Casilli e, in Italia, l’agile volume di Aloisi e Di Stefano, ma la letteratura è ormai imponente.

D ’altra parte, c’è chi esalta le immense opportunità del lavoro cognitivo distribuito nei paludati e confortevoli siti (una sorta di enorme comfort zone sociale) dell’industria quattro punto zero: rinvio alle interessanti analisi, di Daugherty e Wilson nel libro “Human + Machine”, densa di convincenti casi-studio sul potenziamento delle persone che lavorano, nell’interazione con le nuove tecnologie digitali: da cui gli effetti di amplificazione, interazione e di personificazione. Non posso soffermarmi in dettaglio, ma gli esempi riportati su queste tre tipologie di potenziamento sono davvero interessanti. 

I giuslavoristi, in genere, per le ricette regolative, preferiscono scegliere quasi d’istinto il primo corno dell’alternativa, quello pessimistico difensivo.

Si concentrano sui modelli di tutela con l’obiettivo di estendere al digital labor le conquiste sociali classiche associate al paradigma industriale aziendale (stabilità, sicurezza, libertà da controlli invasivi, condizioni di lavoro e remunerazione). 

All’interno di questa strategia poi ci si differenzia tra chi, come è avvenuto di recente in Italia, sostiene interventi regolativi ad hoc e chi invece ritiene che già nel diritto in generale, e nel diritto del lavoro sostanziale e processuale, siano rinvenibili strumenti vecchi e nuovi sia per forme di tutela individuale; ma anche per una nuova fase di utilizzo strategico del diritto nell’azione sindacale.

Da cui le proposte giuridiche operative: il ricorso massivo, sia a scopo preventivo sia di tutela giudiziaria al Regolamento Europeo in materia di trattamento dei dati, insieme all’art. 4 dello statuto; la rivalutazione degli strumenti di istruzione processuale e probatori, rivisitati, a sostegno di strategie giudiziali (e modelli di sentenze) nel senso della qualificazione della subordinazione dei lavoratori digitali, ma anche di smascheramento delle pratiche occulte (le black box) di discriminazione, pregiudizio e vessazione (i licenziamenti di fatto tramite disconnessione in seguito a meccanismi di rating negativo); la piena rivalutazione della valenza costituzionale del contratto e, al suo interno, delle clausole di correttezza e buona fede; l’uso sempre più frequente del diritto antidiscriminatorio sostanziale e processuale. 

Sul piano sindacale, oltre a nuovi strumenti di aggregazione, reclutamento e conflitto, attraverso i social, anche un uso più strategico del diritto processuale collettivo: l’art. 28 in alternativa ragionata, caso per caso, tribunale per tribunale, alle azioni collettive antidiscriminatorie; novità recente, la sperimentazione per la prima volta in Italia, a tutela dei lavoratori delle piattaforme, della class action, come ha fatto la CGIL a Milano; non si disdegna, infine, neppure la strategia di “penalizzazione” del diritto del lavoro, come dimostra il sostegno di una parte della dottrina giuslavorista (anche non necessariamente giustizialista) all’azione repressiva della procura di Milano, che ha avuto un primo esito positivo, in questi giorni, con le condanne per il reato di caporalato digitale e ampi risarcimenti alle parti civili: i 44  fattorini e il sindacato (la vicenda di flash road che operava per conto di Uber Eat).

Una articolata e complessa strategia rimediale, dunque, che incomincia a dare risultati anche tangibili, ma che non si discosta molto dal paradigma tradizione, protettivo, del diritto del lavoro del ‘900.

Certamente con un suo adattamento, ma pur sempre all’interno di strumenti e categorie concettuali della tradizione, anche se rinverditi.

Non sottovaluto certo questo corno dell’approccio del diritto del lavoro al lavoro digitale, dal sapore eroico: esso garantisce certezze concettuali e politiche.

Tuttavia confesso – e concludo lasciando la parola ai relatori – che personalmente sono più intellettualmente incuriosito dal filone degli studi che focalizza l’attenzione più sui processi generativi positivi al traino della rivoluzione digitale, piuttosto che su quelli degenerativi, che non vanno, ovviamente, trascurati.

Gli studi in campo dimostrano che la rivoluzione digitale sta generando non soltanto un diverso rapporto tra persona e macchina di cui prendere atto (l’adattamento, la personalizzazione, l’interazione di cui dicevo). Voglio dire – semplificando molto – che industria 4.0 ha potenzialità non solo come modello di organizzazione aziendale e di produttività tecnologicamente più avanzato; ma anche come soluzione socialmente alternativa al modello di impresa anglo-americano del profitto a breve a vantaggio degli shareholders e delle super retribuzioni dei CEO.

Industria 4.0 si presenta come una sorta di modello operativo del capitalismo degli stakeholder o del capitalismo umanista, che dir si voglia.

Si tratta di un diverso modello che va oltre l’impresa socialmente responsabile nella misura in cui internalizza il paradigma della sostenibilità. E la sostenibilità rappresenta certamente un modello di società oltre che di sviluppo auspicabilmente del mondo che verrà.

In tale modello di impresa, si realizzano pratiche di autogoverno della organizzazione ma anche della produzione, anche connessi alle più generali strategie di impresa, ove si intravede l’idea honnethiana del reciproco riconoscimento tra i lavoratori e tra lavoratori e manager.

Io credo che sia giunto il tempo che tutto ciò dal piano dei fatti e della filosofia politica possa trasferirsi, per quel che riguarda il compito di noi giuristi, nella costruzione di nuove categorie giuridiche (penso a una nuova idea del contratto ma anche a una nuova struttura e funzione della legge del lavoro). Una nuova postura, dunque, del diritto del lavoro e del diritto sindacale come abbiamo cercato di presentare nel manifesto che ho scritto con Tiziano Treu e Riccardo Del Punta.  

Con questo assist finale soprattutto al mio amico Del Punta lascio la parola ai relatori.

Il contenuto di questo post è stato presentato dall’A. al ciclo di Seminari “Le parole del diritto”, organizzato dalla Treccani e dalla Fondazione del Corriere della Sera, per introdurre il concetto di “Lavoro (ed Economia digitale)”, lo scorso 27 ottobre 2021.

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