Anna Alaimo, Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro
Università di Catania
27 ottobre 2023
Il testo che segue riproduce l’intervento svolto in occasione del Seminario intitolato “In tutte le sue forme e applicazioni. I nuovi confini del diritto del lavoro” svolto presso il Dipartimento di Studi giuridici Angelo Sraffa – Bocconi, Milano, 2 ottobre 2023.
1. Il volume di Adalberto Perulli e Tiziano Treu: primo piano e sfondo. – Il volume di Adalberto Perulli e Tiziano Treu – “In tutte le sue forme e applicazioni”. Per un nuovo Statuto del lavoro, Giappichelli, 2022 – è un punto di approdo di percorsi di riflessione individuale seguiti dai due AA. nel tempo, che oggi, con una operazione ben riuscita, convergono in una elaborazione comune.
Penso, per richiamare solo alcune tappe dei due ricchi itinerari, al commento di Tiziano Treu all’art. 35 Cost., pubblicato nel 1979 nel Commentario alla Costituzione curato da Branca[1] e al suo più recente saggio sulla prospettiva rimediale del 2017[2]; nonché alla ricca evoluzione di pensiero propostaci da Adalberto Perulli sin dal noto volume sul lavoro autonomo del 1996[3], una riflessione che ha attraversato il tema del lavoro autonomo bisognoso di tutela negli scritti sul lavoro autonomo economicamente dipendente dei primi anni 2000[4] per poi approdare all’idea della tutela del lavoro “personale” oltre la subordinazione nel volume (“Oltre la subordinazione”, 2021) edito da Giappichelli due anni prima del libro a quattro mani di cui oggi discutiamo.
Comincio con alcune chiose sulla riflessione teorica generale – condensata nel I capitolo – per poi aggiungere qualche considerazione sulle tecniche di estensione e di distribuzione delle tutele “oltre la subordinazione”, suggerite dai due AA. negli ultimi due capitoli del volume.
2. La riflessione teorica. – Sul piano teorico, il principale pregio del volume è di fare un passo avanti, non solo nell’elaborazione di idee già sviluppate singolarmente dai due AA., ma anche nel confronto con altre note riflessioni della dottrina britannica, oggetto di dibattito ormai da più di un decennio.
Il riferimento è al paradigma delle “relazioni personali di lavoro” di Mark Freedland e Nicola Kountouris, sviluppato dai due AA. nell’arci-noto volume edito nel 2011 dalla Oxford University Press (The Legal Construction of Personal Work Relations); un’idea che, più recentemente, Nicola Kountouris ha ripreso, assieme a Valerio De Stefano, in un Rapporto redatto per l’ETUC, intitolato “New Trade Union Strategies for New Forms of Employment” (2019), ma anche in un saggio pubblicato nello stesso anno con il titolo “Defining and Regulating Work Relations for the Future of Work” (Kountouris, 2019).
Molto si è già scritto sulle Personal Work Relations as a personal work nexus al punto da potersi dire che l’idea abbia ormai una sua storia[5]. Per chi volesse approfondire mi limito ad alcuni suggerimenti, ricordando le recensioni al volume inglese di Jesús Cruz Villalón, Vincenzo Ferrari e Orsola Razzolini – pubblicate sul Giornale di Diritto del lavoro e Relazioni Industriali del 2013 (n. 2) -, il numero speciale dell’European Labour Law Journal del 2019 e la menzione che di quell’idea fanno gli Autori del Manifesto per il Diritto del lavoro inglese del 2016[6].
Qual è, dunque, il passo in avanti, l’innovazione di Perulli e Treu rispetto a quelle riflessioni?
I due AA. si confrontano ampiamente con questo dibattito ma lo contestualizzano e se ne discostano.
Lo contestualizzano perché, portando l’idea della centralità del lavoro “personale” all’interno dei confini nazionali, la collocano sotto l’ombrello dell’art. 35 Cost. Il pregio del volume è di rileggere l’idea – solo parzialmente importata – alla luce della copertura costituzionale.
Se per Mark Freedland e Nicola Kountouris la locuzione “Personal Work Relations” è la categoria teorica che regge l’opera, qui il paradigma teorico è quello del titolo: la tutela del lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni”.
Treu e Perulli chiariscono bene che la locuzione “lavoro personale reso a favore di altri” – “lavoro” e non “relazioni” – è solo un concetto, un paradigma teorico – come spiegano in una nota di commento al pensiero di Mark Freedland e Nicola Kountouris (p. 40, nt. 65) – e non è una macro-categoria generale o – ipotesi ancor più improbabile – una possibile nuova fattispecie.
Già nel volume “Oltre la subordinazione” Perulli aveva ampiamente sconfessato l’idea che la crisi di razionalità regolativa del Diritto del lavoro, in uno con l’esigenza di ridefinirne il paradigma guardando “oltre” la subordinazione, potesse condurre ad un allargamento del campo del Diritto del lavoro così poco definito dato che il concetto di “relazioni personali di lavoro” – se inteso come descrittivo di una categoria – è di difficile traduzione applicativa.
2.1. L’art. 35 Cost. L’art. 35 Cost., dunque. Un tributo al dibattito che mi sembra doveroso riguarda – oltre che il già richiamato commento di Treu all’art. 35 Cost., nel quale era già chiaro il pensiero dell’A. (il necessario riferimento della norma costituzionale a «tutte le attività lavorative, che, per una qualsiasi ragione, si appalesano economicamente soggette») – il bel saggio di Mario Giovanni Garofalo pubblicato nel 2008 sul Giornale di Diritto del lavoro e Relazioni Industriali (“Unità e pluralità del lavoro nel sistema costituzionale”). Già in quel contributo Garofalo – riprendendo i fondamentali scritti sul lavoro nella Costituzione del periodo post-costituzionale di Massimo Severo Giannini (Rilevanza costituzionale del lavoro, Riv. giur. lav., 1949-50), Costantino Mortati (Il lavoro nella Costituzione, Dir. lav., 1954), Vezio Crisafulli (Appunti preliminari sul diritto del lavoro nella Costituzione, Riv. giur. lav., 1951) – scriveva che la latitudine della lettera dell’art. 35 ne preclude «un’interpretazione che ne restringa l’ambito al solo lavoro subordinato» e che «il lavoro prestato in esecuzione del contratto di cui all’art. 2094 c. c. è, all’evidenza, solo una delle “forme ed applicazioni” del lavoro rilevante ai fini della norma costituzionale». Proponeva poi una combinazione dell’art. 35 con l’art. 3, co. 2, Cost., dato che «il lavoro che, in forza dell’art. 35, la Repubblica deve tutelare è quel lavoro che, per ostacoli di ordine economico e sociale, invece di essere strumento di sviluppo della persona del lavoratore e di partecipazione collettiva all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, diventa un ostacolo all’uno o all’altra».
Il saggio di Garofalo si fermava là: non discuteva di tecniche di estensione, non discuteva di eventuali terze fattispecie.
Anche seguendo il solco delle classiche riflessioni sui principi costituzionali in materia di lavoro il passo avanti è dunque evidente.
2.2. Fattispecie e valori. Non solo per le proposte, che traspongono la riflessione teorica sul piano applicativo, ma anche per la individuazione di una tensione – quasi una contrapposizione – fra fattispecie e valori, che è un altro punto centrale della ricostruzione dei due AA.
Invece di utilizzare la logica civilistica tradizionale fattispecie-effetti, «bisogna rovesciare la logica normativa partendo dai valori e dai principi costituzionali» (p. 64), affinché siano proprio questi ultimi a «governare il processo normo-genetico» (p. 67) – scrivono i due AA. – e ciò in quanto, come ci ricorda Natalino Irti, «i valori non hanno bisogno di “fattispecie” (…) ma reagiscono a “situazioni di vita” e si realizzano in esse», appoggiandosi «soltanto su se stessi» (Irti, Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, Riv. dir. civ., 2014; Id., La crisi della fattispecie, Riv. dir. proc., 2014).
3. Tecniche di estensione delle tutele. In questa prospettiva decostruttiva, che per i due AA. richiede di «abbandonare la visione statica e monodimensionale della fattispecie astratta» (p. 71) e della fattispecie di subordinazione in particolare, quali sono le tecniche per estendere le tutele e distribuirle al lavoro personale reso a favore di altri? quali proposte di policy si possono rivolgere al legislatore? Posto che – mi pare di poter aggiungere – in Italia, come in altri ordinamenti, il principale problema è quello di selezionare, di delimitare le aree di lavoro non subordinato bisognoso di protezione e sulle quali intervenire con normative di tutela.
Né la forza evocativa, né il crescente lavorio (anche dei giuristi del lavoro) sulle nozioni di povertà, vulnerabilità, precarietà, debolezza (Alaimo, Povertà, lavoro autonomo e tutela del corrispettivo, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 472/2023) e neppure la consapevolezza che «la prima missione del diritto del lavoro e del welfare debba restare quella di “prendersi cura” (…) di tutte le situazioni di vulnerabilità economica e sociale» (Treu, Caruso, Del Punta, Manifesto per il Diritto del lavoro, 2020) riescono a trasferire sul piano delle concrete policies strumenti adeguati a compiere tale delimitazione.
Gli AA. cercano di rispondere alle domande appena poste a partire dal II capitolo, costruendo sul terreno del diritto positivo un percorso di progressiva espansione delle tutele.
Anche qui apro una parentesi nel solco di una lettura congiunta del volume di cui oggi discutiamo e delle proposte teoriche di matrice anglosassone richiamate all’inizio, facendo un breve riferimento al saggio di Nicola Kountouris del 2019 (Defining and Regulating Work Relations for the Future of Work, 2019); in quest’ultimo lavoro, l’A. isola in maniera assai chiara tre tecniche.
- La prima è il rafforzamento della centralità del contratto di lavoro subordinato; per esempio, attraverso l’impiego di presunzioni relative di subordinazione (rebuttable presumptions of status). Si tratta di tecniche che non si affrancano dalla dicotomia – o dal “pensiero in bianco e nero”, per riprendere Alain Supiot (I nuovi volti della subordinazione, in La sovranità del limite, 2020) – e che si limitano ad allargare l’area della tutela legata alla subordinazione; per esempio, nel caso della presunzione di status, agevolando, sul piano probatorio, il soggetto che ne richiede il riconoscimento. Tecnica – quest’ultima – utilizzata in molti ordinamenti, non solo europei (Treu, Rimedi e fattispecie, cit.); impiegata, per esempio, dal Codice del lavoro francese nei confronti di alcuni soggetti (i giornalisti, gli artisti, i modelli, i venditori porta a porta) e dal Codice civile tedesco quando il periodo o l’orario di lavoro abbiano una durata minima. Ne hanno parlano bene Guy Davidov, Mark Freedland e Nicola Kountouris in un saggio di qualche anno fa (“The Subjects of Labor Law: “Employees” and Other Workers”, 2015). In seguito la discussione si è molto allargata per via della introduzione del meccanismo presuntivo negli artt. artt. 4 e 5 della Proposta di Direttiva sulle condizioni di lavoro dei platform workers.
- La seconda tecnica consiste nella creazione di nuove categorie intermedie (identifying new intermediate categories). Queste ultime comportano il rischio di una incontrollata espansione di un loro impiego nella prassi, con conseguente fuga dalla subordinazione, resa possibile proprio dalla previsione legislativa di un’alternativa al contratto di lavoro subordinato.
(iii) La terza tecnica coincide con la proposta, cara all’A., di ri-orientare i diritti legati al lavoro personale andando oltre il contract of employment e, cioè, attribuendo i (rectius: tutti o alcuni dei) diritti tradizionalmente riconosciuti al lavoratore subordinato a qualsiasi soggetto impegnato in una “relazione personale di lavoro”.
Ma torniamo al volume di Perulli e Treu. Negli ultimi due capitoli i due AA. formulano proposte di adeguamento della disciplina legislativa (italiana), ipotizzando diverse «situazioni normative di arrivo» e muovendo dalla individuazione di famiglie di diritti. Alcuni diritti dovrebbero essere oggetto di applicazione universale: innanzitutto quelli fondamentali (privacy, dignità, non discriminazione), ma anche altri, per esempio il diritto a mettere per iscritto i termini dell’accordo – e cioè a stipulare il contratto in forma scritta -, i diritti di informazione individuale, alcuni diritti statutari che presidiano la libertà di opinione (artt. 1 e 8 S.L.). Altri diritti dovrebbero invece legarsi a “gradi intermedi di tutela”: per esempio, il diritto ad un compenso equo ed adeguato, il diritto alle tutele in caso di malattia, il diritto ad alcuni ammortizzatori sociali (per es., agli strumenti di sostegno al reddito in caso di disoccupazione).
Gli AA. seguono, quindi, una linea di ragionamento che dal generale principio costituzionale di tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazione giunge ai diritti – a famiglie di diritti – evitando di passare per le fattispecie.
Nell’assumere questa prospettiva gli AA. sono in buona compagnia. Per richiamare solo due vicinanze – una di pensiero, l’altra riscontrabile in una nota proposta di regolazione – ricordo che anche Alan Supiot (I nuovi volti della subordinazione, cit.) suggerisce di distinguere i diritti fondamentali e i principi generali applicabili a tutti i rapporti di lavoro e i diritti speciali, applicabili solo ad alcuni rapporti lavorativi, formulando l’idea di un diritto comune del lavoro e di una serie di diritti speciali che possano tener conto della diversità dei lavori umani. Analogo era l’approccio seguito dalla nota proposta di Carta dei diritti universali del lavoro della CGIL del 2016.
Ebbene, nei due capitoli dedicati alle proposte, gli AA. indicano i soggetti che dovrebbero diventare destinatari dei diritti utilizzando ricorrentemente i termini “collaboratore autonomo” e “committente” (ma anche “lavoratore autonomo parasubordinato” e/o “economicamente dipendente”), di fatto innestando le proposte «situazioni normative di arrivo» nel tronco delle disposizioni legislative italiane sulle collaborazioni autonome. Nel paragrafo sulla estensione del diritto alla formazione si soffermano, per esempio, sull’opportunità di prevedere specifici obblighi del committente a favore del collaboratore autonomo economicamente dipendente (pp. 97 ss.).
4. Due spunti per proseguire la riflessione. Cosa si può aggiungere alla ricchezza del volume? Come provare ad integrare una riflessione così chiara e persuasiva? Proverò ad allungarne il percorso mettendo a fuoco qualche idea riguardante l’individuazione dei segmenti deboli di lavoro personale bisognoso di protezione.
Oltre che ragionare sui possibili contenuti degli interventi, come fanno utilmente i due AA., occorre infatti provare a ragionare di tecniche regolative.
L’obiettivo di sancire diritti modulati, legati – come scrivono i due AA. (p. 78) – a «gradi diversi di tutela» in ragione delle varie situazioni soggettive di bisogno sociale (p. 75) come può essere perseguito in concreto dal legislatore? Non tanto con quali contenuti ma con quali soluzioni tecniche di individuazione delle aree, dei segmenti di lavoro debole e bisognoso di protezione?
Ho provato ad immaginarne due, nell’idea che il prioritario obiettivo di estendere le tutele possa trarre vantaggio da una loro combinazione.
(i) Creare una fattispecie terza.
Non credo che la tecnica di normazione per fattispecie abbia perso di utilità e che non sia più idonea a sussumere, contenere e, tramite gli effetti tipici, tutelare segmenti di lavoro personale bisognoso di protezione. Parafrasando Guy Davidov (che però si riferiva alla nozione di lavoratore subordinato), «the Reports of my Death are Greatly exaggerated» («la notizia della mia morte è stata ampiamente esagerata»: The Reports of My Death are Greatly Exaggerated: “Employee” as a Viable (Though Overly-Used) Legal Concept, 2006). Lo stesso si potrebbe dire della fattispecie.
Perciò credo che valga la pena di riproporre l’utilità di una fattispecie “terza”, del lavoro autonomo economicamente dipendente, in particolare, che andrebbe definito (ed individuato nel concreto delle operazioni sussuntive) attraverso parametri quantitativi-esterni al rapporto piuttosto che tramite parametri tecnico-funzionali – inerenti, cioè, alle modalità di svolgimento del lavoro – come ha ben spiegato Adalberto Perulli nel suo volume “Oltre la subordinazione”.
Fra questi parametri quantitativi-esterni notoriamente spicca la mono-committenza – o la committenza ristretta – associata al criterio della percentuale di reddito minimo ricavato da uno stesso committente (come il 50% dell’ordinamento tedesco o il 75% dell’ordinamento spagnolo).
Proprio questi criteri sono non a caso ripresi dalle Linee guida della Commissione europea sulla (non) applicazione del diritto antitrust alla contrattazione collettiva dei solo self-employed, che, nell’individuare i tre gruppi di lavoratori destinatari dell’esenzione, chiarisce che un lavoratore autonomo individuale si trova in una situazione di dipendenza economica allorché almeno il 50% del suo reddito da lavoro totale annuo provenga da un’unica controparte.
Di più incerta applicazione sono invece tutti quei parametri – tecnico-funzionali – che rinviano alle modalità di svolgimento del lavoro e che pure continuano ad essere suggeriti da numerose analisi: la “dipendenza operativa” – di cui parlano Rossella Bozzon e Annalisa Murgia (Independent or Dependent? European Labour Statistics and Their (In)ability to Identify Forms of Dependency in Self‑employment, 2022), ma anche il Rapporto Eurofound Exploring self-employment in the European Union (2017); l’inserimento organico della prestazione nel processo produttivo del committente (Pallini, Il lavoro economicamente dipendente, 2013); la “dipendenza organizzativa”, definita come condizione che «preclude al lavoratore di poter autonomamente vendere sul mercato i propri servizi senza l’ausilio dell’organizzazione d’impresa del committente e, proprio per questo, di avere rapporti diretti con il mercato finale» e che richiama la dipendenza economica della legge sulla subfornitura («la dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti»: art. 9, l. 1998).
A conferma dell’attualità della prospettiva della terza fattispecie, ricordo che un’altra proposta di fattispecie intermedia è formulata in uno studio condotto per il CESE, pubblicato nel settembre del 2021 col titolo “The definition of worker in the platform economy”. Lo studio muove dall’esigenza di definire il lavoratore delle piattaforme ma giunge, alla fine, ad una proposta generale di definizione di worker ai sensi del diritto dell’UE.
(ii) Una seconda tecnica per intervenire sul lavoro personale bisognoso di protezione è la modulazione delle tutele attraverso leggi ad hoc, micro-sistemi normativi dedicati a specifici segmenti di lavoro non subordinato ma comunque ”alienato”, o – come ancora scrivono i due AA. – «impigliato nei rapporti sociali di produzione». Ed è una tecnica che il legislatore italiano ha già impiegato in diverse occasioni, con soluzioni legislative adottate per specifici segmenti di lavoro autonomo per estendere tutele – soprattutto garanzie di compensi equi e proporzionati – oltre la subordinazione (Alaimo, Povertà, lavoro autonomo e tutela del corrispettivo, cit.). Basti pensare alla legislazione sui soci di cooperativa, i lavoratori del terzo settore, i riders genuinamente autonomi, i lavoratori dello spettacolo (legge delega sullo spettacolo n. 106/2022).
In questi casi si è adottato un approccio teleologico, al fine di rimediare a condizioni di bisogno che riguardano alcuni lavoratori a prescindere dal loro status: povertà, scarsa qualità del lavoro, vulnerabilità, precarietà, discontinuità, debolezza; condizioni che hanno rappresentato il presupposto fattuale di operazioni regolative ad hoc. L’approccio richiama quello rimediale dei giudici di common law, di cui Tiziano Treu ci ha ampiamente parlato nel suo saggio (Rimedi e fattispecie, cit.). E che, come ha spiegato anche Antonello Zoppoli[7], è un approccio che, identificando «un segmento di tutela (…) si colloca sul prioritario piano della definizione delle situazioni cui attribuire rilievo giuridico, cioè protezione»; approccio, o prospettiva, che può essere giurisprudenziale o legislativa «a seconda che sia il giudice o la legge a selezionare le tutele».
Per concludere, condizioni di vita lavorativa e di bisogno come quelle richiamate, spesso visibili in ampi segmenti di lavoro non subordinato, costituiscono dati-metagiuridici – esterni alla struttura delle fattispecie esistenti, ma anche inidonei a caratterizzare nuove fattispecie – ma possono rappresentare presupposti o condizioni fattuali di operazioni regolative basate proprio sul principio generale di tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.
Questa seconda possibile prospettiva o tecnica di intervento – differente dall’approccio della fattispecie e della stessa fattispecie intermedia – può servire a portare “gli esclusi dalle fattispecie” nel perimetro delle tutele, includendo coloro i cui rapporti personali di lavoro non corrispondono alle fattispecie – neanche a quella del lavoro economicamente dipendente – nel perimetro delle tutele.
[1] Treu, Sub art. 35, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione. Rapporti economici, t. I, Bologna-Roma 1979
[2] Treu Rimedi e fattispecie a confronto con i lavori della Gig economy, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.INT – 136/2017
[3] Perulli, Il lavoro autonomo. Contratto d’opera e professioni intellettuali, in Trattato Cicu – Messineo, XXVII, t. 1, Milano, 1996
[4] Perulli, Lavoro autonomo e dipendenza economica, oggi, RGL, 2003, I, 221, legato allo Studio realizzato dall’Autore per la Commissione europea e pubblicato nello stesso anno: Study on economically dependent work/parasubordinate (quasi subordinate) work: legal, social and economic aspect, EC, Bruxelles, 2003
[5] V. già Freedland, From the contract of employment to the personal work nexus, in Industrial Law Journal, 2006, vol. 35, n. 1, 1-29
[6] Ewing, Hendy and Jones (Edited by), A Manifesto for Labour Law: towards a comprehensive revision of workers’ rights, 2016
[7] A. Zoppoli, Prospettiva rimediale, fattispecie e sistema, Editoriale scientifica, 2023.