Sonia Fernández Sánchez
Ricercatrice di Diritto del lavoro, Università di Cagliari
4 Giugno 2021
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 6497 del 9 marzo 2021, si è pronunciata sul licenziamento del lavoratore disabile e l’obbligo in capo al datore di lavoro di adottare i c.d. accomodamenti ragionevoli. Il caso tratta il licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, ma l’elemento interessante della pronuncia si concentra sulla nozione di accomodamento ragionevole e sulla configurabilità di onere sproporzionato o eccessivo per l’impresa.
La Corte di Appello di Milano confermando la pronuncia del giudice di primo grado, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato dalla Società per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione e la conseguente condanna alla reintegrazione del lavoratore (art. 18, co. 4, St. lav.). Inoltre, la Corte aveva ritenuto sussistere, in capo al datore di lavoro, l’obbligo generale di adottare tutte quelle misure idonee ad evitare il licenziamento, anche quando tale misure possano gravare sull’organizzazione aziendale, con il limite dell’eventuale sproporzione degli oneri a carico dell’impresa. Il fatto che la Società avesse provato che nella biglietteria – postazione di lavoro del dipendente disabile – vi fossero lavoratori con profilo professionale superiore a quello posseduto dal lavoratore disabile e che l’organigramma non prevedessi ulteriori addetti, non era stato ritenuto sufficiente a giustificare il licenziamento. L’azienda, ad avviso del giudice di appello, avrebbe dovuto provare che la destinazione del lavoratore portatore di handicap in tale ufficio avrebbe comportato un onere finanziario sproporzionato, o comunque eccessivo, anche con riferimento alla formazione professionale. Il datore di lavoro si era invece limitato ad affermare, l’impossibilità del repêchage del dipendente disabile secondo gli usuali criteri vigenti in tema di giustificato motivo oggettivo per soppressione delle mansioni. Il giudice d’appello, sulla base della deposizione del medico competente – che aveva dichiarato di non essere mai stato incaricato dall’azienda di esprimere una valutazione in merito ad altre possibili mansioni cui adibire il lavoratore disabile –aveva ritenuto provato che l’azienda non aveva effettuato alcun tentativo di trovare ragionevoli alternative per la ricollocazione del dipendente.
La Società ha proposto ricorso in Cassazione contro la sentenza in appello.
La Corte di Cassazione ha ribadito la decisione del giudice d’appello sulla base del principio per “in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso”, secondo quanto previsto dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE. L’accomodazione ragionevole, come si può osservare, si configura quale limite, non previsto dall’ordinamento, al potere direttivo del datore di lavoro. In questo senso, il giudice ricorda che la giurisprudenza europea intende che sia necessario cercare di eliminare le barriere, di diversa natura, che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione dei disabili alla vita professionale in condizioni di uguaglianza con gli altri lavoratori. Per tanto, l’obbligo di ricercare un’accomodazione ragionevole deriva dal diritto di uguaglianza. Nonostante il legislatore nazionale abbia previsto l’obbligo del datore di lavoro di adottare accomodamenti ragionevoli nel rispetto del principio di parità di trattamento delle persone con disabilità (art. 3, co. 3 bis, lgs. n. 216/2003), non è tuttavia possibile predeterminare, in astratto, l’esatto contenuto dell’obbligo. Il legislatore, in definitiva, ha affidato all’interprete il compito di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo, secondo le circostanze del caso concreto. Tali adattamenti organizzativi, secondo il giudice, devono essere adottati “secondo il parametro (e con il limite) della ragionevolezza”, il principio della ragionevolezza, appunto, è inteso quale limite delle misure che possono essere imposte agli Stati ed ai privati per compensare la disabilità; occorre tener conto in particolare “del limite costituito dall’inviolabilità in peius (art. 2103 c.c.) delle posizioni lavorative degli altri prestatori di lavoro” nonché quello di evitare “oneri organizzativi eccessivi (da valutarsi in relazione alle peculiarità dell’azienda ed alle relative risorse finanziarie)”. Al proposito, il giudice può valutare la proporzionalità e non eccessività delle misure di adattamento “sia rispetto all’organizzazione aziendale sia con riguardo agli altri lavoratori” (Cass. n. 34132/2019). Per tanto, si dovranno ponderare gli interessi giuridicamente coinvolti: da un lato, l’interesse del disabile alla conservazione di un posto di lavoro compatibile con il proprio stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva e incolpevole difficoltà e, d’altro lato, l’interesse del datore di lavoro a ricevere una prestazione lavorativa utile per l’impresa. Inoltre, non è escluso che gli adattamenti organizzativi possano ragionevolmente coinvolgere, indirettamente o direttamente, altri lavoratori dell’azienda, ma con il limite del pregiudizio a situazioni soggettive che assumano la consistenza di diritti soggettivi altrui.
Di conseguenza, si considera ragionevole ogni situazione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un’attività che sia utile per l’azienda e che imponga al datore di lavoro, oltre che ai dipendenti eventualmente coinvolti, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo “la comune valutazione sociale”. Il rapporto di lavoro dei lavoratori invalidi assunti ai fini del collocamento obbligatorio, in caso di aggravamento delle condizioni di salute, può essere risolto solo nel caso in cui “anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro […] accerti la definitiva impossibilità di reinserire all’interno dell’azienda” (art. 10 l. n. 68/1999). Per i lavoratori che invece divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia, non sarebbe possibile un licenziamento per giustificato motivo nel caso possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori (art. 4, co. 4, l. n. 68/1999).
Di fronte a questa premessa, la Corte di Cassazione ha considerato illegittimo il licenziamento del lavoratore disabile tenendo conto i seguenti motivi.
Il datore di lavoro si era limitato ad affermare l’impossibilità del repêchage del dipendente fisicamente inidoneo secondo i criteri vigenti in tema di giustificato motivo oggettivo per soppressione delle mansioni. La Società, nel caso concreto, aveva soltanto provato che nell’organigramma della biglietteria non era prevista la necessità di altri dipendenti e che aveva cercato di rimpiegare il lavoratore nelle mansioni di lavaggio autobus o in quelle di verificatore in affiancamento ad altro collega. Tuttavia, non aveva dimostrato che il fatto di adibire il lavoratore disabile ad altre mansioni avrebbe comportato un onere finanziario sproporzionato o comunque eccessivo anche con riferimento alla formazione professionale, elemento legato all’obbligo dell’accomodamento ragionevole previsto in caso di handicap dalla normativa europea.
Su tale aspetto, la Corte ritiene che al fine di dimostrare di aver adempiuto all’obbligo di ricercare un’accomodazione ragionevole non sia sufficiente dimostrare la mancanza di posti disponibili in azienda ove ricollocare il lavoratore disabile. L’individuazione degli accomodamenti praticabili costituisce un onere in capo al datore di lavoro, non al medico competente e tanto meno al lavoratore disabile, su di lui ricade soltanto l’obbligo di concordare con il datore di lavoro gli adattamenti necessari secondo buona fede. Il controllo di ragionevolezza, secondo la Corte, è rappresentato dalle clausole generali e dalla buona fede, che agiscono “all’interno del rapporto e consentono al giudice di accertare che l’adempimento di un obbligo, contrattualmente assunto o legislativamente imposto, avvenga avendo come punto di riferimento i valori espressi nel rapporto medesimo e nella contrattazione collettiva”. La Corte, in conclusione, ha ritenuto che, nel caso concreto, sia mancato, da parte del datore di lavoro, uno sforzo diligente volto a trovare una soluzione organizzativa idonea ad evitare il recesso, secondo i canoni dell’obbligo di accomodamento ragionevole.