Recensione a Jonathan Wolff and Avner de Shalit, Disadvantage, OUP, 2007

Adriana Topo

Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro, Università di Padova

Alcuni lettori conosceranno già il saggio di Wolff e de Shalit del 2007 intitolato “Disadvantage”: un’opera scientifica che, da una prospettiva filosofica, discute di eguaglianza. Coloro che non hanno affrontato ancora il libro non dovrebbero però escluderlo dal novero delle letture che possono essere utili anche al giurista più interessato agli aspetti pratici della materia. Gli autori, infatti, adottano un approccio metodologico che intende essere il meno astratto possibile e, per essere aderenti a tale premessa, si ispirano a fatti o situazioni reali, mettendo alla prova gli argomenti teorici via via sviluppati attraverso l’analisi dei casi personali raccolti intervistando individui appartenenti a categorie ritenute a priori svantaggiate, applicando rigorosamente un metodo – descritto nel testo –  per  valutare l’autenticità delle situazioni, e la concordanza dei risultati raccolti in contesti e da persone diversi. 

Del resto, gli autori hanno l’obiettivo di tracciare soluzioni che possano essere messe in pratica da chi ha il governo di una comunità, ovvero da chi ha la funzione di destinare risorse economiche pubbliche scegliendo i soggetti che più hanno bisogno del sostegno della società organizzata, per l’appunto cioè le persone che patiscono un disadvantage nell’ambiente nel quale sono inserite. 

Dall’obiettivo perseguito dagli autori deriva il titolo del volume, che si propone di fornire un metodo per stabilire, in un contesto nel quale possono essere adottate politiche sociali, chi si trovi in una situazione deteriore rispetto ad altri. 

In sostanza, il volume riguarda le modalità per realizzare o valutare con un’approssimazione di tipo scientifico, l’applicazione del principio di eguaglianza sostanziale tra gli appartenenti a un certo gruppo sociale: obiettivo che comporta, però, la necessità di stilare una graduatoria dei bisogni che meritano di essere soddisfatti in linea di priorità.  

L’attività consistente nel redigere graduatorie sulla base di criteri oggettivi, che determinano la posizione di ogni soggetto in un ranking, è un’attività nota anche a lettori privi di conoscenze filosofiche o legali. Le graduatorie di merito sono utilizzate per l’elaborazione di scelte in innumerevoli circostanze, e anche in situazioni in cui non vengono in gioco diritti umani fondamentali. Un esempio, che gli autori utilizzano per descrivere questo procedere per l’assunzione di decisioni che influiscono su altri, è il caso dello sport agonistico, nel quale è necessario porre in relazione la situazione di soggetti diversi, adottando criteri ordinanti oggettivi, con la necessità – qualche volta – di combinare in unico risultato graduatorie di funzioni diverse. Per esempio, nel decathlon vengono combinate discipline sportive diverse: il nuoto, la corsa, etc.  

Nell’esperienza di tutti, l’esigenza di produrre graduatorie per limitare l’arbitrio di chi sceglie si traduce nella ben nota regola del concorso. Non a caso la Costituzione impone tale metodo per la selezione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, sul presupposto che il procedimento concorsuale limiti l’arbitrio e consenta di rispettare il principio di eguaglianza. 

Nell’ambito del diritto del lavoro, l’applicazione dei criteri di scelta per selezionare i lavoratori da licenziare per ragioni oggettive risponde alla stessa esigenza: dare attuazione al principio di giustizia sostanziale che comporta l’adozione di decisioni che colpiscano solo in ultima istanza i soggetti relativamente più svantaggiati, secondo una graduatoria che attribuisce priorità alle condizioni personali di alcuni rispetto alle condizioni degli altri. 

L’esempio della disciplina dei licenziamenti collettivi, nella sua relativa semplicità, dimostra, però, quanto sia complessa e controvertibile la determinazione delle regole per la selezione, circostanza che appare evidente nella discussione tra i pratici relativa alla scelta dell’ambito spaziale entro i quale applicare i criteri di selezione dei lavoratori da estromettere.

Wolff e de Shalit non partono da zero per sviluppare il loro discorso. La filosofia che si trova a monte, e che fa da premessa al saggio, è l’idea di giustizia elaborata da Rawls e poi, con alcune variazioni, da Nussbaum: tesi che individuano e graduano tra loro in ordine di priorità le funzioni che una società fondata sul principio di liberà deve garantire a ogni individuo, perché quest’ultimo possa esprimere le proprie potenzialità in misura pari agli altri.  

L’originalità del saggio di Wolff e de Shalit non sta, dunque, nelle premesse teoriche sull’idea di eguaglianza ma, in primo luogo, nell’approccio sperimentale, che gli autori hanno voluto essere “democratico” e realistico, introducendo nel discorso la regola secondo la quale l’individuazione delle situazioni di svantaggio non può essere il risultato di scelte operate dall’alto, da chi governa e magari si trova nella posizione di decidere da una posizione che non permette di tenere conto delle caratteristiche specifiche del contesto nel quale la decisione deve trovare applicazione. La formulazione della graduatoria relativa alle situazioni di maggior svantaggio, anche quando affidata a organi di governo, deve essere il prodotto del confronto con gli operatori sociali e con i destinatari delle scelte, cioè con le persone svantaggiate, e con coloro che hanno il compito di intercettare tali situazioni nell’attività lavorativa. 

Non è difficile intravvedere nell’applicazione di questo metodo, trasposto all’area della disciplina dei rapporti di lavoro, l’idea della consultazione tra datore di lavoro e lavoratori, mediata dalla presenza delle organizzazioni sindacali, e, per tornare ai licenziamenti collettivi, la necessità di dare reale peso alla consultazione sulle ragioni della riduzione di personale e sui criteri di scelta da applicare. 

Altro elemento fondamentale nel pensiero dei due autori è l’idea secondo la quale non è sufficiente adottare una prospettiva monistica per graduare la condizione di svantaggio degli individui ma, al contrario, è indispensabile redigere più ranking, cioè tante graduatorie quante sono le “function” (esigenza fondamentale della persona nel senso ralwsiano) che emergono dal confronto democratico con gli interessati, ossia i destinatari del supporto pubblico e gli operatori sociali. L’applicazione del metodo monistico comporta, infatti, la necessità di descrivere le situazioni di svantaggio in cui si trovano gli individui sulla base di un indicatore omogeneo – di norma il valore economico-monetario – che non è sempre adatto a rappresentare tutte le function, tra le quali, ad esempio, gli autori inseriscono l’opportunità di intessere relazioni sociali, o l’opportunità di accedere all’istruzione. Tali esperienze sono, infatti, precluse a molti, a prescindere dalle scelte personali. A riprova, gli autori rappresentano il caso di una donna intervistata che non ha ricevuto un’istruzione di base e poi professionale in ragione del contesto religioso-familiare in cui è nata, con la conseguenza, in età adulta, di non potere accedere a occasioni di lavoro di qualità, che le permettano di esercitare altre function, costringendola a subire ulteriori condizionamenti e limiti che la pongono in una situazione di maggiore svantaggio rispetto alla sola carenza d’istruzione. 

Per superare il problema monistico, sul piano applicativo è indispensabile rinunciare all’ottica consistente nel convertire un bisogno personale in un valore economico e adottare una diversa prospettiva. Tale prospettiva è quella di delineare più cluster, uno per ogni function e, all’interno di ciascuno di questi, andare a creare un ranking tramite il dialogo con gli stakeholder, salvo poi sintetizzare in un ranking finale la situazione di svantaggio di un individuo rispetto a un altro.

Molti sono gli spunti di riflessione che il saggio di Wolff e de Shalit offre al lettore, specialmente nella parte in cui dimostrano l’intrinseca fallacia dell’approccio monistico. Le riflessioni degli autori sono, però, particolarmente utili anche per ragionare su istituti giuridici che rientrano nell’esperienza di chi pratica il diritto del lavoro, ben adattandosi, ad esempio, alla riflessione sul diritto antidiscriminatorio applicabile quando più tipi di discriminazione colpiscano lo stesso soggetto. Il saggio, poi, è utile anche per riflettere sulle eccezioni ai divieti di discriminazione in presenza di esigenze diverse che la legge fa prevalere sul diritto dell’individuo a non subire un certo tipo di discriminazione.

Più difficile è, invece, immaginare l’applicazione su larga scala delle soluzioni ideate dai due autori, volendo estenderle alle scelte politiche del regolatore che operi a livello nazionale, come ad esempio un governo centrale. Si deve, però, sottolineare che il metodo democratico di consultazione tra governo e stakeholder non è una novità in materia di scelte di politica sociale e del lavoro, e anzi trova, a livello euro-unitario, esplicito riconoscimento nelle regole sul dialogo sociale. 

Wolff and e de Shalit ritengono, che l’applicazione del metodo democratico dovrebbe essere valorizzato anche a livello di scelte relative a situazioni molto specifiche per gruppi ristretti di persone. Tale conclusione ha però dell’utopico dato che comporta un enorme dispendio di energie per la definizione dei micro-cluster, e perché costringe a raccogliere informazioni che non tutte le persone sono disposte a rivelare o, addirittura, delle quali alcuni individui non sono nemmeno pienamente consapevoli, finendo così con il restringere a un numero limitato di soggetti l’applicazione del principio di eguaglianza. 

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