Frank discriminava i lavoratori autonomi

Silvia Borelli

Professoressa associata di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Ferrara

Maura Ranieri

Professoressa associata di Diritto del lavoro, Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro

7 Maggio 2021

Nell’ordinanza del Tribunale di Bologna che, per prima in Europa, ha applicato i divieti di discriminazione ai lavoratori[1] delle piattaforme (n. 2949/2019), la giudice risolve la questione dell’applicabilità della normativa antidiscriminatoria ai riders in maniera semplice e rapida attraverso il richiamo di alcune disposizioni chiave (art. 2 co. 1 d. lgs. n. 81/2015) e di alcuni passaggi giurisprudenziali (Cass. n. 1663/2020) per affermare «che non pare oggi potersi dubitare della necessità di estendere anche a tali lavoratori, a prescindere dal nomen iuris attribuito dalle parti al contratto di lavoro, l’intera disciplina della subordinazione e, in particolare, per quanto qui interessa, la disciplina a tutela del lavoratore da ogni forma di discriminazione nell’accesso al lavoro». Quest’affermazione è poi corroborata dal richiamo ad un duplice dato normativo: l’art. 47 quinquies d. lgs. n. 81/2015 e l’art. 3 co. 1 d. lgs. n. 216/2003.

Il caso di specie può, tuttavia, essere assunto come pretesto per riflettere sugli spazi di tutela che il diritto antidiscriminatorio, quale «sottosistema normativo dotato di propri caratteri distintivi» (Barbera-Guariso), assicura anche oltre gli steccati, sempre meno ben piantati, del lavoro subordinato.

La riflessione si giustifica, sul piano generale, per il fatto che, come rilevato in dottrina (Alessi), l’assenza di subordinazione non è sinonimo di redditi elevati e di adeguati livelli di protezione sociale; e anzi, nel mercato del lavoro digitale si riproducono condotte discriminatorie similari, negli effetti anche se non nelle modalità, a quelle che subiscono i lavoratori tradizionali. 

Sul piano giuridico, va poi osservato che l’art. 47 quinquies applica la disciplina antidiscriminatoria ai soli lavoratori che rientrano nella definizione di cui all’art. 47 bis il cui campo di applicazione è molto limitato: non copre infatti né tutti i lavoratori delle piattaforme, né tanto meno tutti i lavoratori autonomi.

L’esigenza di riflettere sull’applicabilità della tutela antidiscriminatoria ai lavoratori autonomi nasce, inoltre, dalla presenza di un vero e proprio puzzle normativo, sia a livello europeo sia nell’ordinamento interno ove le direttive di c.d. seconda generazione sono state distrattamente recepite.

Come noto, i lavoratori autonomi non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 157 TFUE. Il diritto antidiscriminatorio derivato contiene invece disposizioni che espressamente estendono la tutela ivi prevista anche al lavoro autonomo, ma solo nell’accesso all’occupazione e al lavoro (v. gli artt. 3 lett. a) direttiva 2000/43 e 2000/78 e l’art. 14 direttiva 2006/54); per taluni fattori si prevedono poi atti normativi specifici (v. la direttiva 2010/41/UE).

Se ci fermassimo a un’interpretazione strettamente letterale dell’articolato puzzle normativo dovremmo concludere che la tutela antidiscriminatoria si applica ai lavoratori autonomi solo là dove espressamente previsto. Tale lettura non è però priva di irrazionalità: dovremmo infatti ammettere che, mentre un criterio discriminatorio nell’accesso al lavoro autonomo è vietato, a seguito della stipulazione del contratto di lavoro, lo stesso criterio discriminatorio potrebbe essere legittimamente utilizzato per recedere dallo stesso (Borelli, Guariso, Lazzaroni). 

Per rimediare a tale nonsense, si potrebbe proporre un’interpretazione estensiva della locuzione «accesso al lavoro e all’occupazione», per farvi rientrare non solo il momento della stipulazione del contratto di lavoro autonomo, ma anche l’accesso alle singole prestazioni di lavoro (nel caso di contratti di durata a esecuzione periodica). Anche in questo caso, però, non si coprirebbero tutti i possibili casi di discriminazione che può subire un lavoratore autonomo, ad esempio in relazione al corrispettivo o al recesso dal contratto.

Per superare l’irrazionalità dell’interpretazione letterale delle disposizioni sopra ricordate, occorre dunque tentarne un’interpretazione sistematica. Prima di iniziare tale percorso è tuttavia opportuno sottolineare che l’interpretazione sistematica qui proposta non è contra legem: nulla infatti, in tali disposizioni, vieta di applicare i divieti di discriminazione al lavoro autonomo. Né i termini “occupazione” e “lavoro” nelle direttive possono essere riferiti al solo lavoro subordinato, dato che, quando si parla di «accesso all’occupazione e al lavoro», tali termini sono riferiti al lavoro sia dipendente che autonomo.

2. Passato, presente e futuro (?) della tutela antidiscriminatoria nell’Unione europea

Le direttive antidiscriminatorie di seconda generazione si applicano alla persona fisica che opera in diversi ambiti (così gli artt. 3 dir. 2000/43 e 2000/78 e l’art. 1 dir. 2006/54 che fa riferimento a uomini e donne). La loro base giuridica è inoltre ravvisabile nell’art. 19 e nell’art. 157 TFUE, disposizioni che consentono l’adozione di provvedimenti per contrastare le discriminazioni fondate su una serie di fattori anche, ma non solo, in relazione al lavoro subordinato.

Il percorso intrapreso con le c.d. direttive di seconda generazione si è bruscamente interrotto nel 2008 quando è naufragata la proposta di direttiva c.d. orizzontale (Proposta di direttiva del Consiglio recante applicazione del principio di parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale, COM (2008)426) che avrebbe dovuto completare il puzzle normativo delineato a partire dal Trattato di Amsterdam. Nemmeno il tentativo operato dal neoeletto Parlamento europeo nel 2019 è servito a fare ripartire l’iter legislativo (https://oeil.secure.europarl.europa.eu/oeil/popups/ficheprocedure.do?reference=2008/0140(APP)&l=en).

Va peraltro osservato che l’Unione europea attraversa, in questo momento, una crisi esistenziale (Menéndez). Dal 2014 la Commissione è poi alle prese con l’esigenza di rafforzare le politiche a tutela della Rule of Law ove l’attenzione si concentra sul principio di uguaglianza di fronte alla legge, anziché sul principio di uguaglianza tout court.

Rimane tuttavia che i principi di uguaglianza e di non discriminazione sono oggi riconosciuti come principi generali del diritto dell’Unione, codificati negli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cui la Corte di giustizia ha riconosciuto un’efficacia diretta orizzontale, in tutte le materie che rientrano nella competenza dell’Unione europea. L’operatività del diritto antidiscriminatoria taglia, dunque, trasversalmente tutto l’ordinamento UE (v. anche l’art. 10 Tfue ).

3. I divieti di discriminazione nelle fonti sovrannazionali 

L’applicazione dei divieti di discriminazione ai lavoratori autonomi può essere argomentata anche mediante l’interpretazione sistematica del diritto nazionale alla luce di altre fonti sovrannazionali.

In primo luogo, va ricordato che numerosi Trattati internazionali ratificati dal nostro paese vietano discriminazioni al di là del solo lavoro subordinato. In particolare, l’art. 26 della International Covenant on Civil and Political Rights garantisce «to all persons equal and effective protection against discrimination on any ground such as race, colour, sex, language, religion, political or other opinion, national or social origin, property, birth or other status».

Occorre poi prendere in considerazione la legislazione specifica relativa ai singoli fattori protetti. Non potendo qui trattare l’insieme dei fattori, si è scelto di soffermarsi su due tra i più problematici in relazione all’applicazione ai lavoratori autonomi: la religione e le convinzioni sindacali. 

Quanto al divieto di discriminazione sindacale, rilevano le Convenzioni OIL n. 87 e 98. Secondo la costante quasi-giurisprudenza dei Comitati OIL, tutti i lavoratori, senza alcuna distinzione, hanno il diritto di creare organizzazioni sindacali e di beneficiare dei diritti sindacali (Comitato per la libertà sindacale, casi n. 2013, n. 2602, n. 2786, n. 2868). Analogamente, il diritto a «un’adeguata protezione contro tutti gli atti di discriminazione tendenti a compromettere la libertà sindacale in materia di impiego» (art. 1 Conv. 98) è riconosciuto a tutti i lavoratori (e non solo i lavoratori subordinati) (caso n. 2888, § 1084).

Nella Compilation of decisions of the Committee on Freedom of Association viene poi specificato che «protection against acts of anti-union discrimination should cover not only hiring and dismissal, but also any discriminatory measures during employment, in particular transfers, downgrading and other acts that are prejudicial to the worker». 

Quanto al divieto di discriminazione in ragione della religione, si deve fare ricorso agli artt. 9 e 14 della CEDU. Dalla lettura delle Guide che la Corte EDU aggiorna periodicamente, ove sono presentate, in maniera organica e ordinata, tutte le decisioni della Corte relative alle singole disposizioni della Convenzione (Guide on Article 14 of the European Convention on Human Rights and on Article 1 of Protocol No. 12 to the Convention Prohibition of discrimination, 2020; Guide on Article 9 of the European Convention on Human Rights, 2020), si deduce che «for Article 14 to be applicable it is necessary, but also sufficient, for the facts of the case to fall within the wider ambit of one or more of the Convention Articles». Come noto, l’ambito di applicazione dell’art. 9 CEDU non è affatto limitato al solo lavoro subordinato, ma ricomprende una pluralità di settori.

In chiusura, devono poi ricordarsi le recenti risoluzioni e raccomandazioni del Consiglio d’Europa sulle discriminazioni algoritmiche in cui si raccomanda agli Stati membri di «draw up clear national legislation, standards and procedures to ensure that AI-based systems comply with the rights to equality and non-discrimination», e si invitano «all entities, both public and private, working on and with AI-based systems, to ensure that respect for equality and non-discrimination is integrated from the outset in the design of such systems, and adequately tested before their deployment, wherever these systems may have an impact on the exercise of or access to fundamental rights» (Risoluzione 2343 (2020)1 dell’Assemblea su Preventing discrimination caused by the use of artificial intelligence; in senso analogo v. la Raccomandazione del Comitato dei Ministri Rec/CM(2020)1 su Human rights impact of algorithmic systems; la Raccomandazione del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa su Unboxing Artificial Intelligence: 10 steps to protect Human Rights’).

Il Consiglio d’Europa segue dunque un approccio olistico, diretto a garantire il rispetto dei diritti fondamentali, tra cui figurano i diritti a non subire discriminazioni, in ogni ambito in cui operano sistemi di Intelligenza Artificiale. Analogamente, la strategia digitale dell’Europa sottolinea l’importanza di garantire il rispetto dei diritti fondamentali nella trasformazione digitale (Communication: Shaping Europe’s digital future: https://ec.europa.eu/info/publications/communication-shaping-europes-digital-future_enLibro bianco sull’intelligenza artificiale – Un approccio europeo all’eccellenza e alla fiducia, COM(2020) 65). Ancora una volta, l’invito è di andare oltre ai singoli frammenti, e di guardare l’intero puzzle. D’altro canto, se il diritto antidiscriminatorio è lo strumento che impedisce a chi è titolare di un potere di esercitarlo in maniera discriminatoria, cosa conta il mestiere che svolge la persona (o del gruppo) che è (o può essere) discriminata?


[1] Per esigenze di sintesi, nel presente scritto si è utilizzato il maschile neutro, ben consapevoli che non è affatto neutro.

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