Il diritto all’organizzazione del tempo come strumento di parità

Mariagrazia Militello

Ricercatrice a tempo indeterminato in Diritto del Lavoro, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Catania

Che l’organizzazione del tempo di lavoro sia ormai un ambito di intervento ineludibile per l’impatto che essa ha sull’equilibrio tra vita e lavoro e, di conseguenza, sulla parità di genere, è un fatto tanto indiscutibile quanto finora poco esplorato. 

Il rilievo che l’organizzazione dell’orario di lavoro ha sulla qualità della vita è ormai dato acquisito, tanto da rappresentare uno dei più importanti indici di misurazione dello sviluppo economico e sociale dell’UE (Report on the Measurement of Economic Performance and Social Progress (CMEPSP) del 2009 https://www.economie.gouv.fr/files/finances/presse/dossiers_de_presse/090914mesure_perf_eco_progres_social/synthese_ang.pdf ); il che sul versante della regolazione, si traduce nell’idea – non nuova, in verità – per la quale la modernizzazione della normativa in materia di regimi di orario debba consentire l’adattamento dei ritmi lavorativi alle esigenze della persona del lavoratore» (Ichino P. (1985), Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, II, Giuffrè, p. 486), sulla base del noto principio per cui è l’organizzazione che deve modellarsi sull’uomo e non viceversa.

Questo concetto, con riguardo al più specifico piano delle tematiche di genere, tradotto nella necessità di adattare il lavoro ai bisogni della donna gravata da compiti di cura, è stato declinato in maniera parziale, producendo così risultati controintuitivi. 

Per lungo tempo, infatti, l’esigenza avvertita di una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro necessaria per favorire la conciliazione e, quindi, per agevolare l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro, è stata intesa esclusivamente in termini di riduzione dell’orario di lavoro. In quest’ottica, è stato attivamente incentivato l’uso del part-time e di altre forme di lavoro flessibile; agevolando, così l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, ma senza eliminare le barriere di accesso al lavoro standard e acuendo addirittura le diseguaglianze di genere nel mercato e nella società. 

La prospettiva che ha guidato queste scelte regolative è stata quella dell’aumento dell’occupazione femminile, non quella della parità. Per cui se è vero che si è assistito ad un incremento della componente femminile, tuttavia quest’ultima si è collocata in quel segmento di mercato caratterizzato da un lavoro instabile e precario e la conciliazione perseguita è stata solo quella dei ruoli, con la possibilità per le donne di rivestire al contempo il ruolo di lavoratrici e quello di madri, comunque a scartamento ridotto. In più, è appena il caso di dire, nulla è cambiato sul versante della ripartizione del lavoro riproduttivo. 

È rimasto così sullo sfondo il tema, invece centrale, di una regolazione dell’orario di lavoro tuttavia costruita su un prototipo maschile o, più precisamente, su un lavoratore che non sia gravato o non intenda farsi carico del lavoro di cura (si veda, ad esempio, la recente sentenza della Corte di giustizia del 18 settembre 2019, C-366/18, Mesonero c. UTE Luz Madrid Centro sulla richiesta avanzata da un lavoratore turnista di poter lavorare esclusivamente durante il turno mattutino, mantenendo lo stesso numero di ore lavorative, senza riduzione della retribuzione, per occuparsi dei suoi figli). 

L’inidoneità di questo approccio è un dato con il quale in tempi recenti si è cominciato a fare i conti. La Commissione Europea, nella Comunicazione sulla Strategia per l’uguaglianza tra uomini e donne 2010-2015 ha sottolineato che il perseguimento dell’uguaglianza richiede una più equa distribuzione del lavoro riproduttivo, obiettivo rispetto al quale la regolazione dell’orario di lavoro gioca un ruolo fondamentale. 

Diversi studi e ricerche dimostrano come una cultura dell’orario di lavoro prolungato e rigido (cioè non adattabile alle esigenze del lavoratore), ma unilateralmente modificabile dal datore, porti a rafforzare le diseguaglianze di genere già esistenti. Risulta, infatti, dai dati di una recente ricerca condotta in Italia, che più di un terzo delle intervistate ha indicato quali ostacoli prevalenti alla conciliazione «la quantità di ore di lavoro, la presenza di turni o di orari disagiati (lavoro pomeridiano o serale o nei fine settimana) e la rigidità nell’orario di lavoro» (Sabbadini L.L. (2016), Donne fra lavoro e conciliazione dei tempi di vita: un’Italia lontana dall’Europa, in Pavolini E. (a cura di), Welfare aziendale e conciliazione. Proposte e esperienze dal mondo cooperativo, il Mulino). Inoltre, come emerge da uno studio comparativo condotto su uomini e donne, in coppia con e senza figli, sono le donne che riducono l’orario di lavoro in media di tre ore, mentre gli uomini lo aumentano di un’ora (Medalia C. – Jacobs J.A. (2008), Working time for married couples in 28 countries, in Burke R.J. – Cooper C.L. (eds.) The long work hours culture: causes, consequences and choices, Emerald Group Pub, p. 137-158,); con le relative conseguenze in termini di riduzione sia della retribuzione e dei diritti pensionistici, sia delle prospettive di carriera. 

A livello sovranazionale, il rapporto tra parità e orario di lavoro è stato significativamente preso in considerazione in una fase del processo di modifica della direttiva sull’orario di lavoro, tanto da aver condotto il Parlamento europeo a proporre l’introduzione di importanti misure che assegnassero al lavoratore un diritto potestativo alla modifica dell’organizzazione del lavoro e dell’orario di lavoro, in grado di controbilanciare il potere datoriale, quali l’obbligo per il datore di lavoro di comunicare con congruo preavviso eventuali modifiche dell’organizzazione dell’orario di lavoro e il diritto del lavoratore di richiedere un cambiamento dell’orario di lavoro in ragione di esigenze personali che comunque il datore di lavoro avrebbe potuto rifiutare ma solo se questo avesse comportato svantaggi organizzativi proporzionalmente maggiori rispetto ai vantaggi che avrebbe avuto il lavoratore.

Naufragato su questo punto il processo di revisione, il necessario legame tra parità e regolazione dell’orario di lavoro è riemerso in sede di approvazione della direttiva UE 1158/2019 sull’equilibrio tra vita professionale e vita familiare, in cui il legislatore, riconoscendo l’impatto negativo sull’occupazione femminile della “crescente prevalenza di orari di lavoro prolungati e di orari di lavoro che cambiano” (considerando n. 10), ha introdotto un seme di regolazione dell’orario di lavoro a sottolinearne il rilievo funzionale quale tassello necessario del complesso puzzle della conciliazione, regolata a sua volta, non come obiettivo in sé, ma quale strumento di perseguimento dell’obiettivo della parità.

Malgrado la timidezza dell’approccio adottato, l’espresso riconoscimento quale strumento di conciliazione di una regolazione flessibile dell’organizzazione del lavoro e dell’orario di lavoro che non coincida con la mera riduzione dell’orario – il cui utilizzo è, peraltro, sconsigliato dal legislatore che scoraggia apertamente l’uso del part-time – che continuerebbe a perpetuare la divisione sessuata del mercato, consente di prendere le mosse da una prospettiva radicalmente diversa rispetto al passato, per un ripensamento complessivo dell’organizzazione dell’orario di lavoro in un’ottica di genere che sia funzionale all’obiettivo dell’aumento e del miglioramento dell’occupazione femminile.

E ciò avendo, al contempo, presente che tale obiettivo non può prescindere dal necessario perseguimento di una parità effettiva che richiede pari partecipazione delle donne nel mercato del lavoro ed equa distribuzione del lavoro di cura. 

Una prospettiva di questo tipo impone di «andare oltre le misure che aiutano le donne a partecipare al mercato del lavoro, per introdurre misure che incoraggino gli uomini ad adeguare il proprio orario di lavoro e a rispondere alle proprie responsabilità» (Pavlou V. (2018), Percorso di lettura sulla dottrina femminista del diritto del lavoro, in DLRI, 3, p. 713), e che, partendo dal presupposto che tutti i lavoratori hanno responsabilità familiari(Zbyszewska A. (2018), Gendering european working time regimes. The working time directive and the case of Poland, Cambridge University Press), si traducano nella previsione di un diritto del lavoratore di incidere sull’organizzazione del lavoro e dell’orario di lavoro per esigenze legate alla cura, senza che ciò abbia riflessi sulla prestazione lavorativa. 

In questi mesi l’epidemia si è abbattuta su un mercato del lavoro caratterizzato da profonde diseguaglianze e le ha amplificate, restituendoci un quadro in cui, se per un verso, il lavoro produttivo delle donne (il segmento dei lavori essenziali è per gran parte costituito da donne) – oltre a quello quello riproduttivo (pensiamo alla gestione dei figli in dad) – si è rivelato imprescindibile, per l’altro, è finito ancora una volta per essere sacrificato (In Italia su 444.000 posti di lavoro persi nel 2020, oltre il 70% appartenevano a donne).

Mettere mano alla regolazione dell’orario di lavoro è una grande opportunità in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo e farlo con una prospettiva diversa che superi il modello gender blind dell’attuale normativa non è solo un modo (ancorché non l’unico) per imprimere un mutamento nelle condizioni di lavoro delle donne per ragioni di giustizia, parità di genere e distribuzione ottimale delle competenze, ma è anche, per usare le parole della Commissione europea, una questione di sostenibilità di bilancio degli Stati. È un imperativo sociale ed economico. 

Lo era prima e lo è a maggior ragione oggi.

Tags: , , , , ,

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *