Istantanee dal mondo sul lavoro autonomo declinato al femminile

Vania Brino

Professoressa associata di Diritto del lavoro, Università Ca’ Foscari di Venezia.

Questo breve commento intende proporre un’istantanea sul lavoro autonomo al femminile con lo scopo di rappresentare, ad un tempo, le criticità strutturali del contesto e le azioni adottate al fine di favorirne il superamento. 

Sullo sfondo un interrogativo sfidante e denso di implicazioni per il futuro.

La pandemia potrà essere il turning point da cui ripartire, a livello globale, per accompagnare le lavoratrici autonomeoltre la crisi e, in una prospettiva più ampia, per definire percorsi di azione inclusivi e promozionali aventi ad oggetto l’occupazione femminile nelle sue multiformi declinazioni?

Invero già nel pre-pandemia le ricerche hanno evidenziato, in tutti i paesi del mondo, sia pur con differenti gradi di intensità, una cornice tutt’altro che rosea (https://www.oecd.org/g20/summits/osaka/G20-Women-at-Work.pdf). 

Le problematiche rilevano sia sul piano strettamente quantitativo (posta una percentuale di partecipazione delle lavoratrici decisamente inferiore rispetto a quella dei lavoratori) che qualitativo. Le tutele riconosciute alle lavoratrici autonome sono residuali rispetto a quelle di cui godono le lavoratrici dipendenti. Inoltre, se consideriamo soprattutto la situazione nei paesi emergenti e in via di sviluppo, l’occupazione femminile si colloca per lo più all’interno dei circuiti perversi dell’economia informale. 

Così, anche rispetto all’imprenditoria femminile, emergono comuni fattori di vulnerabilità: ridotte dimensioni, crescita lenta, maggiore il rischio di chiusura dopo i primi anni di start up, limitato accesso al credito, scarsa formazione sul business (https://www.mastercard.com/news/research-reports/2020/mastercard-index-of-women-entrepreneurs/).

Lo scenario ci appare costellato da molte zone d’ombra che si sono ulteriormente estese per effetto della pandemia, e che si spingono ben oltre il lavoro autonomo e le libere professioni. 

Non a caso, rispetto alla crisi si è parlato di una shecession e/o di una pink-collar recession.

Esemplificativo sul punto il Policy Brief dell’ONU sull’impatto dell’emergenza sulle donne. Il documento mette ben in luce le conseguenze inique della pandemia con riferimento al contesto economico, alla salute, al lavoro di cura non retribuito, alla violenza di genere e, da ultimo, a particolari contesti di fragilità e/o conflitto nei quali le donne possono trovarsi in famiglia e nel lavoro. L’analisi riflette sia l’inasprirsi delle situazioni strutturali di diseguaglianza sia l’introduzione di nuovi elementi di criticità (https://www.unwomen.org/-/media/headquarters/attachments/sections/library/publications/2020/policy-brief-the-impact-of-covid-19-on-women-en.pdf?la=en&vs=1406).

Con riferimento specifico al mondo del lavoro, la pandemia ha amplificato le situazioni di rischio per le lavoratrici. Uno sguardo attento sulle caratteristiche occupazionali dei settori più colpiti restituisce una fotografia da cui si evince chiaramente che la recessione in corso ha penalizzato, diversamente dalla crisi finanziaria del 2009, settori ad elevata specializzazione femminile come quello del turismo, le attività di vendita al dettaglio, ristorazione, servizi di cura, etc. (https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—dgreports/—gender/documents/publication/wcms_744685.pdf). Si è determinata una sovra-esposizione delle donne durante il lockdown, operando le stesse nell’ambito di attività essenziali come i servizi socio-sanitari (dove costituiscono il 70% della forza lavoro nei Paesi Ocse) e molte occupazioni libero-professionali (www.oecd.org/coronavirus/policy-responses/women-at-the-core-of-the-fight-against-covid-19-crisis-553a8269/).

La crisi ha inoltre prodotto conseguenze disastrose sulle catene globali del valore nel tessile, ambito in cui la presenza femminile registra livelli elevati (pari a 3/4 della forza lavoro globale), soprattutto nelle filiere dislocate nei paesi in via di sviluppo ed emergenti che, come noto, risultano più attrattivi per la disponibilità di manodopera a basso costo (https://mneguidelines.oecd.org/OECD-Garment-Forum-2020-Session-Note-Tackling-Violence-and-Harassment-in-Textiles-Clothing-Leather-and-Footwear.pdf).

Sono proprio questi paesi che vedono amplificati i fattori di vulnerabilità che già li caratterizzavano prima della pandemia. In queste complesse realtà l’assenza di adeguati strumenti di protezione (le donne costituiscono quasi il 70% della forza lavoro sanitaria), l’elevata diffusione del lavoro informale (740 milioni di donne lavorano nell’economia informare e il 42% di queste nei settori ad alto rischio comparato al 32% degli uomini), i carichi familiari, e ancora il rischio elevato di violenze e discriminazioni dentro e fuori gli ambienti di lavoro, nonchè la scarsità di risorse a disposizione espongono le donne a situazioni di sfruttamento e di violazione dei più basilari diritti fondamentali.  

Spostando l’attenzione sulle misure che sono state impiegate per sostenere le lavoratrici autonome durante la crisi, molti stati hanno previsto sgravi fiscali temporanei, programmi di prestito dedicati e sostegno finanziario diretto, e ancora la riduzione o l’annullamento dei contributi sociali (ad esempio Belgio, Israele, Portogallo), la moratoria sulle tasse (ad esempio Italia, Spagna, Sud Africa, Cile, Perù e Argentina). Vi sono poi tutte le misure di conciliazione anche sotto forma di sostegni economici rivolti a coloro che sono escluse dal welfare e non hanno diritto all’assicurazione sul lavoro ((https://www.ilo.org/global/topics/coronavirus/WCMS_744685/lang–en/index.htm).

Ma come osservato nel Policy brief dell’ONU poc’anzi richiamato il nodo centrale non è tanto costituito dalla pandemia in sé, quanto dalla sua naturale inclinazione ad amplificare gli effetti di situazioni di strutturale vulnerabilità e disuguaglianza a livello globale.

Al di là quindi degli interventi dettati dall’emergenza e volti a rispondere, nel breve periodo, ai bisogni avvertiti dalle lavoratrici autonome e dalle libere professioniste, la vera sfida sta ora nella costruzione di percorsi di azione capaci di stanare gli elementi di vulnerabilità e i problemi endemici che affliggono le donne nel mondo del lavoro, favorendo così l’inclusione e la partecipazione nel post pandemia. 

Se da qualche tempo si registrano taluni passi significativi sul piano delle tutele riconosciute oltre il lavoro subordinato (https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—dgreports/—ddg_p/documents/publication/wcms_742290.pdf), così come sul potenziamento delle misure di contrasto alle discriminazioni di genere anche nell’alveo del lavoro autonomo e delle libere professioni, da altra prospettiva i passi da compiere sono ancora molti. 

Un primo fattore che appare decisivo, soprattutto se concentriamo l’analisi sui paesi emergenti e in via di sviluppo, riguarda la promozione della transizione verso l’economia regolare e, in questo senso, rileva l’urgenza di interventi condivisi e strutturati vuoi sul piano del potenziamento dei sistemi ispettivi e di controllo vuoi attraverso misure di incentivo alla regolarizzazione. Pur se non mancano esperienze particolarmente virtuose a difesa dei diritti delle lavoratrici che operano nell’economia informale (e qui vorrei richiamare tra tutti il caso emblematico della Self Employed Women’s Association in India che ha organizzato con successo donne imprenditrici, fornendo loro servizi di supporto, come l’assistenza all’infanzia e l’accesso ai finanziamenti, e aiutandole a superare le barriere alla formalizzazione), la questione deve essere necessariamente affrontata sul piano istituzionale a livello globale (https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—ed_dialogue/—dialogue/documents/publication/wcms_750495.pdf.

Un secondo elemento insiste sulle sfide indotte dai processi di digitalizzazione anche nell’ambito del lavoro autonomo e dell’imprenditoria femminile, fattore che si lega indissolubilmente alla promozione della formazione e al tema dell’accesso al credito. Alcuni stati si sono già mossi in questo senso ma certamente le azioni sul piano della formazioneanche nell’ambito delle competenze digitali può rappresentare una leva decisiva. Del resto alcune ricerche hanno messo in luce l’attitudine resiliente delle donne nell’imprenditoria e nel lavoro autonomo vuoi in termini di transizione, pur nell’emergenza, al digitale, vuoi sul piano dell’attivazione di nuove opportunità di business soprattutto nell’e-commerce e nei servizi, vuoi ancora con azioni di riallineamento del proprio modello di business alle nuove istanze sviluppate dalla pandemia dei consumatori a livello locale e globale (https://www.mastercard.com/news/research-reports/2020/mastercard-index-of-women-entrepreneurs/).

Il quadro sommariamente richiamato porta ad affermare che partecipazione e parità devono essere interpretate, a tutti i livelli, come leve fondamentali per la ripresa economica così come per lo sviluppo culturale e sociale di ogni nazione. 

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