Luciana Guaglianone
Professoressa associata di Diritto del lavoro e di Diritto Sindacale, Università di Brescia
1. Una tecnica normativa innovativa
Fino al 2021 la Unione europea per raggiungere la parità salariale tra uomini e donne aveva utilizzato il linguaggio dei diritti ma non era riuscita né ad eliminare nè a ridurre il gap salariale. Il principale ostacolo non era costituito dalla scarsa estensione del principio di parità retributiva- che negli anni anche grazie alla giurisprudenza europea si era rafforzato e precisato- ma era imputabile alla sostanziale disapplicazione delle disposizioni in materia da parte dei datori di lavoro. Contro questa situazione i lavoratori e le lavoratrici nulla o poco potevano fare, la mancanza di trasparenza che circondava tutta la materia retributiva impediva loro di proporre qualsiasi azione giudiziaria.
La direttiva 2023/970, introducendo obblighi informativi che vincolano il datore di lavoro a fornire informazioni sulle sue politiche retributive, interrompe il corto circuito creatosi tra la presenza di diritti e la loro ineffettività. Il risultato che si ottiene è duplice: la promozione del principio di trasparenza retributiva ed il controllo da parte dei lavoratori (ma anche delle parti sociali v.), si rafforza il rispetto degli obblighi prima affidato solo alla volontà dei datori di lavoro.
2. La nozione di retribuzione e la nozione di “stesso lavoro o lavoro di eguale valore”
2.1. La retribuzione
La nozione di retribuzione non presenta profili innovativi, ma si rifà alla giurisprudenza della CGUE. Di conseguenza, si considera retribuzione “il salario o lo stipendio normale di base o minimo e tutti i vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore (componenti complementari o variabili) a motivo dell’impiego di quest’ultimo (art. 3 lett. a). Parzialmente nuovo, invece, è il metodo di calcolo per computare la differenza salariale. La scelta della “differenza retributiva media” come parametro delle differenze salariale – secondo le osservazioni critiche fatte dagli economisti e dalle economiste – non garantiva risultato reale perché non si consideravano né le fasce retributive più basse, nelle quali, solitamente, si collocano le donne, né quelle più alte. Ovvia a questa imprecisione l’introduzione di due parametri, che si affiancano a quello preesistente, il livello retributivo mediano (declinato anche in relazione al genere) ed il quartile retributivo (art. 3 lett. d, e, f) il cui utilizzo varia a seconda della precisione ed analiticità del dato che si vuole conoscere.
2.2. Stesso lavoro e lavoro di eguale valore
La novità che si segnala in relazione al concetto di “stesso lavoro o lavoro di eguale valore” (art. 4) non riguarda il contenuto- la direttiva rinvia, sostanzialmente, alla giurisprudenza della CGUE sul tema- ma la tecnica di redazione della norma che non definisce il concetto, ma pone degli obblighi di risultato a carico degli Stati membri. Questi devono garantire che i datori di lavoro dispongano di sistemi retributivi che assicurino la parità retributiva (art. 4 c.1) ed assicurare che i datori di lavoro, nonchè le parti sociali, abbiano a loro disposizione degli strumenti di analisi che li aiutino a istituire o utilizzare sistemi di classificazione professionale neutri. Obiettivo di questa procedura è costruire sistemi retributivi che consentano di valutare se i lavoratori svolgono attività lavorative il cui valore è comparabile sulla base di criteri “non discriminatori, oggettivi neutri sotto il profilo del genere “(art. 4 c. 4).
Se questo è il percorso che la norma impone di seguire, sorgono, però, dubbi sulla sua possibilità di attuazione, almeno per quanto riguarda l’Italia. L’art. 4 c. 1 ci riporta all’attuale e non risolto dibattito sulla necessità o meno di approvare una normativa sul salario minimo, mentre il secondo comma dello stesso articolo pone a carico degli Stati membri attività che ricadono nella sfera di competenza delle parti sociali (istituzione di strumenti o metodologie che consentano di istituire e utilizzare strumenti di classificazione professionale. In relazione a questo secondo punto, forse, la difficoltà intravista potrebbe essere superata in via interpretativa dalla lettura combinata dell’art. 4 c. 2 e dell’art. 33 c. 2., che suggerisce agli Stati membri di affidare alle parti sociali (anche)la messa a punto di strumenti o metodologie di analisi di cui all’articolo 4, paragrafo 2.
3. Nuove procedure per combattere la diseguaglianza salariale: l’informazione e la valutazione congiunta delle retribuzioni
3.1. Obblighi informativi generali
Allo scopo di riequilibrare l’asimmetria informativa, il legislatore europeo introduce una serie di obblighi che hanno oggetto e destinatari differenziati a seconda degli specifici scopi che si vogliono raggiungere. Il primo gruppo di articoli vede i candidati e le candidate, nonchè i lavoratori e le lavoratrici, titolari di diritti di informazione che riguardano, nel primo caso, le informazioni sul livello retributivo iniziale e sul loro futuro inquadramento (art. 5); nel secondo caso il diritto dei dipendenti e delle dipendenti ad avere accesso ai criteri utilizzati per determinare l’inquadramento contrattuale, il livello retributivo e le progressioni economiche(art.6). Le disposizioni contenute nell’art. 7 c. 1, invece, entrano nel vivo degli obiettivi della direttiva. Oggetto di informazione sono i livelli salariali individuali e i livelli salariali medi, ripartiti per sesso, in relazione alle categorie che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di eguale valore; la conoscenza di questi dati mette in grado di disporre di informazioni che permetteranno di proporre azioni in giudizio. Destinatari degli obblighi sopra elencati sono i soggetti individuali, ma, visto che l’obbligo di fornire informazioni disaggregate in base al sesso costituisce uno dei punti nodali della direttiva, è ammesso che, dietro richiesta dei lavoratori o delle lavoratrici, siano le parti sociali ad interloquire con i datori di lavoro (art. 7.c.2 e art. 7 c.3). Questa possibilità ovvia, in parte, ad uno dei limiti della direttiva che, in linea con le attuali tendenze in materia di trasparenza (v. Direttiva 2019/1152), attribuisce, (prevalentemente) in via esclusiva, ai lavoratori ed alle lavoratrici la titolarità del diritto generale all’informazione. La rischiosità di questa scelta è aggravata dalla mancata indicazioni di un apparato sanzionatorio che protegga dall’inadempimento del datore di lavoro, cosa che contrasta con l’obiettivo dello stesso articolo che pone un obbligo di risultato, rendere accessibile “i criteri utilizzati per determinare la retribuzione, i livelli retributivi e la progressione economica” senza, però, indicare le modalità tramite le quali attuarlo, limitandosi a specificare il criterio che deve esser seguito affinchè le scelte operate siano legittime (criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere).
In sintesi, in relazione ai diritti di informazione che sono attribuiti a tutti i lavoratori ed a tutte le lavoratrici, indipendentemente dalla dimensione del datore di lavoro, le parti sociali, titolari del potere negoziale sugli argomenti oggetto di informazione, hanno un ruolo assolutamente marginale ed eventuale.
3.2. Dimensione aziendale ed obblighi informativi
L’obbligo di dare informazioni sul divario di genere, calcolato in base agli indicatori di cui all’art. 3 lett.a-f della direttiva, compete alle aziende che occupano minimo 100 dipendenti, il dovere, però, matura con gradualità temporale in relazione alla dimensione dell’azienda si dilata dal 2027 (per le aziende che occupano almeno 250 lavoratori) al 2031 (per quelle tra i 100 e i 149 lavoratori) (art. 9 c. 2-4). Titolare di questi diritti, oltre ai lavoratori ed alle lavoratrici, è l’autorità che ogni Stato, in base all’art. 29 della direttiva, deve designare per monitorare e sostenere l’attuazione delle misure contenute nella direttiva stessa. Obbligo aggiuntivo e di contenuto differente è quello di cui all’ art. 9 lett. g, in questa ipotesi dovrà essere comunicato solo “il divario retributivo di genere per categorie di lavoratori ripartito in base al salario o allo stipendio normale di base e alle componenti complementari o variabili”, in questa ipotesi le informazioni, oltre ai destinatari già indicati, sono destinate anche ai rappresentanti dei lavoratori.
La scelta del legislatore europeo di escludere le parti sociali e/o rappresentanti dei lavoratori, almeno in forma esplicita dalla maggior parte degli obblighi formativi, appare di difficile comprensione, a meno di non riportarla alle difficoltà di equilibri politici in seno alle Commissioni. Il differenziale retributivo che si comunicherà alle parti sociali è calcolato secondo il metodo “tradizionale “, già criticato in quanto dà risultato falsati, con il risultato di escludere i soggetti protagonisti delle politiche salariali dalla conoscenza di elementi valutativi più precisi. Questa limitazione informativa è ancora meno chiara se si coordina la disposizione sopra citata (art.9 lett. g) con l’art. 9 c.10 che attribuisce ai rappresentanti dei lavoratori, non solo il diritto di richiedere chiarimenti, dettagli e spiegazioni in merito alle informazioni fornite ma- ove le differenze retributive non siano motivate sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere- riconosce l’onere di collaborare con il datore di lavoro per porre rimedio alla situazione. La collaborazione dei rappresentanti dei lavoratori è, quindi, richiesta per la gestione della fase rimediale, ma esclusa, almeno in maniera esplicita, da procedure conoscitive più approfondite, a differenza di quanto disposto per altri soggetti collettivi quali l’ispettorato del lavoro e/ l’organismo per la parità parimenti coinvolti nella ricerca di soluzioni.
3.3. Valutazione congiunta delle retribuzioni
L’unica ipotesi di una collaborazione esclusiva tra datori di lavoro e rappresenti dei lavoratori è subordinata alla presenza di due condizioni: una soglia occupazionale superiore a 100; una differenza retributiva pari almeno al 5% – se non sia motivata da fattori oggettivi e neutri sotto il profilo del genere – e non corretta dal datore di lavoro entro sei mesi dalla sua scoperta (art. 10). Il potere di effettuare quello che è un vero e proprio audit salariale (v. art. 10 c. 2 lett. a-f) ha funzione sanzionatoria e non preventiva, come sarebbe auspicabile, ed ha lo scopo di introdurre, nel caso in cui il datore di lavoro non intervenga volontariamente a sanare le differenze riscontrate, un piano coattivo di rimozione delle differenze intervenendo su quelle che, si suppone siano le cause (art. 10 c. 4).