Marta Giaconi
Ricercatrice di Diritto del lavoro, Università degli studi di Milano- Bicocca
1. Sulla scia del presupposto (oggi smentito) della loro maggiore forza contrattuale (ed economica) la tutela della genitorialità di lavoratrici e lavoratori autonomi è decisamente meno intensa di quella approntata nel settore subordinato, come noto connotato da molteplici strumenti di c.d. work life balance (si pensi anche solo ai congedi di maternità, parentali e giornalieri). In particolare, per le libere professioniste la protezione della maternità si esaurisce nel riconoscimento di un’indennità erogata dalla Cassa di appartenenza ed ancorata al reddito dichiarato.
L’art. 70 co. 2 del d.lgs. 151/2001 sancisce che l’indennità di maternità venga corrisposta in misura pari all’80 % di cinque dodicesimi del solo reddito professionale percepito e denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo dalla libera professionista nel secondo anno precedente a quello dell’evento (parto).
Si tratta di una misura attualmente in grado di conciliare proficuamente la maternità con la vita professionale e le ambizioni della lavoratrice? Ad avviso di chi scrive no, per le ragioni che verranno brevemente illustrate.
2. Si potrebbe osservare che, laddove una donna decida di intraprendere la libera professione, in autonomia senza alcun incardinamento in un’organizzazione altrui, la tutela della maternità non possa che assumere carattere indennitario, essendo invece rimesso alla stessa lavoratrice decidere per quanto tempo sospendere la propria attività (affrontandone quindi gli effetti).
Se questo è vero, al fine di verificare l’effettività della misura di protezione occorrerà confrontarsi con il parametro di quantificazione dell’indennità di maternità, ossia il reddito dichiarato.
Scopriremo, così, che le libere professioni più diffuse sono connotate da un gender gap reddituale presente sin dagli esordi e crescente nel corso della carriera.
Leggeremo, a titolo meramente esemplificativo, i dati forniti da Cassa forense, Inarcassa ed Ordine dei dottori commercialisti e revisori contabili.
3. I dati resi pubblici dalla Cassa forense con il report “I numeri dell’avvocatura” relativo alla situazione 2018, oltre ad enfatizzare un crescente aumento della presenza femminile nel settore, confermano che
a fronte di un reddito medio di categoria pari a € 39.473 all’anno, agli avvocati di sesso maschile se ne attribuisce in media € 53.681, mentre alle donne circa € 24.378.
Questa proporzione subisce notevoli oscillazioni a seconda dell’età oggetto d’esame ma è connotata dalla perdurante presenza del gap. Così, se una giovane avvocata tra i 30 e i 34 anni (ossia nell’età in cui in Italia si colloca mediamente la nascita del primo figlio, cfr https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/le-equilibriste-la-maternita-in-italia-2020 ) nel 2018 ha dichiarato mediamente un reddito annuo ai fini Irpef pari ad € 13.530, il suo collega ne avrà dichiarati € 19.069. Ancor più sorprendente è scoprire che, sempre nel 2018, un’avvocata nel pieno della propria carriera professionale (tra i 45 e 49 anni) abbia dichiarato, in media, un reddito annuo ai fini Irpef pari ad € 26.793 a fronte dei € 53.570 dichiarati dal collega della stessa età (http://www.cassaforense.it/riviste-cassa/la-previdenza-forense/previdenza/i-numeri-dell-avvocatura-2019/ ).
4. Un rapido sguardo alle altre professioni conferma il carattere infrasettoriale del gap reddituale, fenomeno solitamente approfondito e contrastato entro i ristretti confini della subordinazione.
Nel 2018 le ingegnere hanno dichiarato un reddito professionale mediamente pari ad € 20.240 mentre i colleghi € 37.654. Gap ancora più evidente per le architette che nel medesimo anno hanno mediamente dichiarato un reddito annuo pari ad € 16.234 mentre i colleghi € 25.455 (https://www.inarcassa.it/site/home/cose-inarcassa/documento1703.html).
Se questa è la (grave) situazione in settori che la stessa Inarcassa definisce sempre più giovani e femminili qual è la condizione delle professioniste in ordini di impostazione tradizionale ancora connotati dalla prevalente presenza maschile?
Il bilancio di genere pubblicato dall’Ordine dei dottori commercialisti e revisori contabili aggiornato al 1.1.2019 mostra ancora come il numero delle professioniste, costantemente inferiore a quello dei colleghi, tra 41 ed i 60 anni corrisponda addirittura alla metà di quello degli iscritti uomini (21,9% contro 42,8%).
Quanto al gap reddituale le rilevazioni mostrano che nel 2017 le professioniste iscritte alla Cassa dei dottori commercialisti hanno mediamente dichiarato un reddito annuo ai fini Irpef pari ad € 39.949 a dispetto dei € 68.616 dichiarati dai colleghi,
con significative variazioni a seconda del territorio ma una costante presenza del divario(https://commercialisti.it/documents/20182/1236821/2019_bilancio-di-genere.pdf/7f22c079-09a0-4c05-87c9-ad9a2dc5b625).
5. Alla luce dell’appurato gap reddituale, la tutela della maternità delle professioniste, vincolata come è al reddito, appare decisamente inadeguata. In tale contesto il superamento del differenziale reddituale esistente diventa quindi non solo un obiettivo (minimo) di equità e di tutela del lavoro, meritevole di essere perseguito di per sé ex art. 35 Cost., ma anche uno strumento di indiretta protezione del diritto alla maternità. Ad una maternità, si intende, che non pregiudichi le ambizioni e l’elevazione professionale della lavoratrice stessa. Qualcuno potrebbe replicare che, operando le professioniste nell’ambito di un “mercato”. sebbene regolamentato, ed entro la cornice della prestazione d’opera intellettuale, non sia ipotizzabile un intervento in grado di garantire il rispetto di un trattamento economico dignitoso che, invece, può rappresentare solo l’esito di una conquista principalmente culturale che vede come interlocutori non solo i clienti (potenziali od effettivi) ma spesso anche i colleghi.
La realtà è che in altri frangenti il legislatore ha già dato prova di voler intervenire a tutela del professionista “contraente debole”, attraverso un’iniziativa che, quantomeno, è espressione di sensibilità nei confronti del tema. Ci si riferisce, ad esempio, alla previsione sul c.d. equo compenso degli avvocati che sono parte di una convenzione con clienti c.d. forti (istituti di credito, assicurazioni, pubbliche amministrazioni).
Evocando i principi sanciti dall’art. 36 Cost. l’art. 13 bis, comma 2, della legge forense (l. 31 dicembre 2012, n. 247) dispone infatti che possa considerarsi equo il compenso che sia proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, oltre ad essere conforme alle tariffe ministeriali (d.m. 8 marzo 2018, n.37; cfr anche il Protocollo di intesa d64520e4-9e1f-48a5-bb08-4d7068b39150 (consiglionazionaleforense.it)).
6. Un utile strumento al superamento del gap potrebbe, quindi, derivare dalla consacrazione normativa di un principio di equità del compenso di genere la cui necessaria rivendicazione non deriverebbe dalla forza del cliente (una banca o una grande assicurazione) quanto dalla eteroimposta debolezza contrattuale della professionista. La necessità che le professioniste vengano espressamente contemplate tra le destinatarie di iniziative in materia di contrasto al gap retributivo è stata recentemente sottolineata da Confprofessioni nell’ambito dell’iter di approvazione della proposta di legge della regione Lazio recante “Disposizioni per la promozione della parità retributiva tra i sessi, il sostegno dell’occupazione e dell’imprenditoria femminile di qualità nonché per la valorizzazione delle competenze delle donne”(https://confprofessioni.eu/sites/default/files/audizione_proposta_di_legge_182_lazio.pdf ) n. 182 dell’11.9.2019.
7. Al di là dell’intervento di un legislatore, il cui margine di operatività può dirsi in effetti limitato dalla natura autonoma del rapporto, è lecito attendersi un supporto dagli ordini e dalle casse di appartenenza oltre che dai colleghi. A quest’ultimo riguardo è fin troppo noto che la gran parte degli studi professionali italiani, quantomeno nei settori brevemente trattati, sia ancora improntata ad uno modello di organizzazione del lavoro fortemente presenzialista, immotivatamente ispirato al rispetto di vincoli di luogo e di orario difficilmente conciliabili non tanto con la gravidanza quanto con la maternità ed il rinnovato concetto di tempo che essa impone.
Il tempo della maternità (così come quello della genitorialità), soprattutto nei primi anni di vita del bambino, è incompatibile con l’imposizione di stringenti vincoli di orario e luogo. Occorre quindi far tesoro di uno degli insegnamenti appresi nel corso di questa logorante emergenza (molte attività lavorative possono essere svolte ovunque vi sia una connessione efficiente al web!) per valorizzare esperienze quali gli spazi di coworking e cobaby già presenti sul territorio solo in poche città, tra cui Milano e Roma (http://www.pianoc.it/, http://www.lalveare.it/) e che purtroppo, pur essendo ricchissimi di potenzialità, nel nostro Paese stentano a diffondersi.
Spazi condivisi di lavoro e di cura della prima infanzia in cui le professioniste (o i professionisti) oltre ad avere una postazione possono contare su un servizio nido (fino a 36 mesi) erogato da personale tecnico similmente a quanto avviene da più di cinquant’anni in alcune realtà aziendali (con i nidi aziendali). Un worklife balance così configurato, tradotto anche fisicamente nell’unicità di un luogo, merita di essere valorizzato il più possibile attraverso la partecipazione di enti locali (proprietari di un ricco patrimonio immobiliare spesso inutilizzato) ed il sostegno economico di casse ed ordini (mediante l’erogazione di voucher e convenzioni a beneficio degli iscritti similmente a quanto già avviene per alcuni servizi di babysitting e nidi ma spesso con stringenti limiti reddituali).
8. Se legislatore ed istituzioni, oltre ad enumerare con sdegno dati sempre più allarmanti, non interverranno, dimostrando quantomeno di avere coscienza e cura del gender pay gap nelle professioni e delle sue implicazioni sulla maternità, non è difficile immaginare quali potranno essere gli esiti. Appurata, allo stato, la difficile compatibilità tra le due sfere, le strade più frequentemente imboccate saranno due: in un senso quella del sacrificio totale o parziale delle proprie ambizioni professionali successivamente alla maternità (sul cui impatto in termini di costi e sprechi di risorse economiche e personali non ci si dilunga per mere ragioni di spazio), nell’altro senso quella della (talvolta inconsapevole) rinuncia alla maternità o ad un suo sereno godimento, a beneficio della professione. Una professione che, se il trend qui brevemente descritto non verrà recisamente contrastato, non sarà comunque mai soddisfacente e redditizia quanto quella esercitata dagli uomini.
Una risposta.
[…] Marta Giaconi, “La mamma è avvocata! Spunti su maternità, libera professione e compensi̶… […]