Elisabetta Tarquini
Consigliera presso la Corte d’Appello di Firenze
Qualunque analisi, anche la più sommaria – come è questa – dell’ordinanza del Tribunale di Bologna che per la prima volta ha applicato le tutele antidiscriminatorie ai lavoratori delle piattaforme, non può prescindere da una premessa ovvia, ma forse necessaria: poiché è di un provvedimento giudiziale che si tratta, si discute della decisione di un caso concreto, in cui il giudice deve muovere di necessità dai presupposti di fatto che ha davanti, rappresentati dal novero delle allegazioni e poi delle circostanze provate in giudizio e offrirne una ricostruzione capace di superare il vaglio dell’impugnazione.
Una premessa necessaria perché la natura del provvedimento, la sua funzione valgono probabilmente a giustificare di per sé alcune soluzioni interpretative, che avrebbero forse potuto essere diverse, se diverse fossero state le allegazioni e soprattutto le prove offerte dalle parti e raccolte in giudizio. E’ un’osservazione che, a parere di chi scrive, deve farsi soprattutto a proposito della scelta ricostruttiva del Tribunale per la discriminazione indiretta, anziché diretta, ma che c’entra anche con il tema di cui questo breve scritto si occupa, nell’ambito dell’analisi della decisione: quello dell’individuazione dei fattori di discriminazione ritenuti dal Tribunale rilevanti.
In uno dei primi commenti (Puccetti, Tosi), molto critico, alla pronuncia del Tribunale, si è imputato, tra l’altro, all’ordinanza di avere assicurato la tutela antidiscriminatoria a fattori non tipizzati, in quanto non lo sarebbero quelli nominati nel provvedimento (l’adesione a uno sciopero, la malattia, l’assistenza a un familiare portatore di handicap).
Non si intende certo discutere qui di tipicità versus atipicità dei fattori di discriminazione nell’evoluzione del diritto antidiscriminatorio, non solo perché lo spazio non basterebbe nemmeno per cominciare, ma ancora prima perché non è in effetto necessario, visto che il tema di indagine è lo specifico provvedimento adottato dal Tribunale di Bologna.
Per restare quindi ai fattori di discriminazione di cui l’ordinanza fa menzione, l’assistenza a un familiare portatore di handicap è condizione certamente ricompresa nell’ambito del fattore handicap nella forma della discriminazione associata, come affermato dalla Corte di Giustizia in Coleman (Corte di Giustizia, 17.7.2008, Coleman, causa C-303/06). E anche della malattia può dirsi lo stesso “se …, comporta una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata, …” (così Corte di Giustizia, 11.4.2013, HK Danmark, cause riunite C-335/11 e C337/11).
Ma prima è necessario rilevare, proprio in quanto si discute della decisione di un caso concreto, che il riferimento della giudice alla condizione di malattia e a quella di chi presti assistenza a un familiare disabile non ha alcun effetto sul decisum, che riguarda esclusivamente la discriminazione sindacale, oggetto delle domande attrici.
E allora è quanto a questa sola, affermata discriminazione che è utile interrogarsi sulla soluzione ermeneutica raggiunta dal Tribunale.
Una soluzione che, secondo chi scrive, trova un solido fondamento nella giurisprudenza della Corte di legittimità e di quelle sovranazionali.
In primo luogo infatti pare difficile dubitare che la libertà di affiliazione e di attività sindacale debba ricomprendersi tra le convinzioni personali, tutelate dalla direttiva 78/2000/CE e prima dall’art. 21 della Carta.
Si tratta di un’affermazione che forse potremmo azzardarci a dire consolidata nella giurisprudenza nazionale, in quanto era stata già affermata dalla Corte d’Appello di Roma nella pronuncia (del 9.10.2012), conclusiva in quel grado della vicenda delle mancate assunzioni dei lavoratori iscritti alla FIOM da parte di Fabbrica Italia e nello stesso senso più di recente è andata la Corte di Cassazione, nella sentenza 1/2020, citata anche dal Tribunale e, secondo cui “nell’ambito della categoria generale delle convinzioni personali caratterizzata dall’eterogeneità delle ipotesi di discriminazione ideologica estesa alla sfera dei rapporti sociali, può essere ricompresa […] anche la discriminazione per motivi sindacali con il conseguente divieto di atti o comportamenti idonei a realizzare una diversità di trattamento o un pregiudizio in ragione dell’affiliazione o della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali”.
Ed è una conclusione convincente alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, che, in base alle regole di interpretazione della Carta contenute nell’art. 52, deve servire a ricostruire i confini dei diritti e quindi anche dei fattori protetti dall’art. 21 della Carta stessa e che trovino disciplina anche nella CEDU.
Infatti la Corte EDU già in Campbell e Cosans c. Regno Unito del 25.2.1982, aveva affermato che “considerato isolatamente e nel suo significato ordinario, il termine ‘convinzioni’ non è sinonimo dei termini ‘opinioni’ e ‘idee’, nel senso in cui sono adoperate nell’articolo 10 della Convenzione, che garantisce la libertà di espressione; è più vicino al termine ‘credo’ (in francese ‘convictions’) che appare nell’art. 9” e denota quindi idee che “raggiungono un certo livello di rigore, serietà, importanza”.
E’ cioè tutelata la libertà di ciascuno di assumere un proprio sistema di valori (religioso o laico) e di non essere in conseguenza discriminato, ed è ragionevole ritenere, come aveva fatto la Corte d’Appello di Roma nell’ordinanza 9.10.2012, relativa alla vicenda FIOM Fiat, e come ha ripetuto la Corte di Cassazione nella sentenza 1/2020 che l’affiliazione sindacale sia espressione di un sistema di valori, visto che costituisce “la professione pragmatica di un’ideologia di natura diversa da quella religiosa, connotata da specifici motivi di appartenenza a un organismo socialmente e politicamente qualificato a rappresentare opinioni, idee, credenze suscettibili di tutela in quanto oggetto di possibili atti discriminatori vietati” (Borelli, Guariso, Lazzaroni).
Ma alla stessa conclusione conduce la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sotto altro profilo, muovendo dalla tutela della libertà di associazione garantita dall’art. 11 della CEDU, in quanto, in Danilenkov contro Russia (Corte EDU, 30.7.2009, Danilenkov c. Russia), stabilisce una relazione di necessaria strumentalità tra divieti di discriminazione e libertà di associazione sindacale, così che analoga strumentalità deve affermarsi tra divieto di discriminare e libertà sindacale affermato dall’art. 12 della Carta.
Deve quindi concludersi che sia opinione largamente condivisa anche in giurisprudenza, e del tutto condivisibile, l’inclusione dell’affiliazione sindacale tra le convinzioni personali tutelate dalla Direttiva 78/2000 e dall’art. 21 della Carta.
Si è detto però, da parte di alcuni commentatori, che altro sarebbe la libertà sindacale, altro la mera adesione a uno sciopero, di cui parla il Tribunale.
Si tratta di un argomento non condivisibile, in quanto la libertà sindacale, la libertà cioè di unirsi a un sindacato, di svolgere attività sindacale, non garantisce certo solo un’intima convinzione, ma vive necessariamente negli atti che la esprimono e lo sciopero è di essi forse il più tipico.
Né rileva il fatto che l’adesione allo sciopero possa essere espressione di una scelta occasionale o mutevole.
In primo luogo infatti – lo aveva già osservato la Corte d’Appello di Roma nell’ordinanza sui lavoratori iscritti alla FIOM – qualsiasi convinzione, e non solo l’affiliazione sindacale, è suscettibile di modificarsi nel tempo, ma ciò non ne esclude la dignità e quindi la tutela assicurata dall’art. 21 della Carta.
Ma soprattutto, ad avviso di chi scrive, non può attribuirsi alcun rilievo al fatto che, in ipotetiche circostanze, l’adesione a uno sciopero possa essere frutto di decisioni estemporanee o addirittura opportunistiche. Quello che conta è che essa è in sé comunque espressione di un diritto di libertà e sempre in sé, cioè come nozione che corrisponde a un id quod plerunque accidit fondato sulla storia dei movimenti operai e delle lotte sindacali, è condotta coerente rispetto a una determinata idea del lavoro e dei suoi diritti, a una convinzione appunto, ed è questa ad essere tutelata dai divieti di discriminazione.
Del resto in questo senso è particolarmente significativo il testo dell’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori, che vieta espressamente la discriminazione sindacale anche in relazione alla partecipazione a uno sciopero.
Il legislatore del 1970 aveva ben chiara infatti la relazione, la relazione necessaria tra attività sindacale e diritto al conflitto, ma si tratta di una relazione che si ritrova anche nella sentenza Danilenkov c. Russia della Corte EDU, sopra citata, (in cui infatti i comportamenti pregiudizievoli accertati come discriminatori seguivano alla partecipazione a uno sciopero). E la si ritrova perché è così nei fatti, nella realtà delle relazioni sindacali, nel mondo di fuori che talvolta (e questo è uno dei casi) si impone nel ragionamento giuridico e nel processo con argomenti invincibili, come quelli opposti al filosofo che negava il moto e cui fu risposto camminando.