Marco Novella
Professore ordinario di Diritto del lavoro, Università degli studi di Genova
La condivisione del lavoro di cura è un problema difficile, reale, concreto, quotidiano, diffuso; per queste sue caratteristiche costituisce il terreno ideale per “mettere a terra” le questioni, altrimenti rarefatte, rinchiuse nel dibattito teorico sulla libertà delle donne e degli uomini nelle scelte lavorative e di vita.
Credere che esistano soluzioni giuridiche idonee a risolvere d’emblée il problema conseguendo il risultato della condivisione pare illusorio. Nello stesso tempo, ritenere che le discipline giuridiche ben poco, o nulla, servano, essendo necessari “ben altri” mutamenti nella società, oltre che nelle convinzioni e negli atteggiamenti degli individui, sarebbe sbagliato. La regolazione per via legislativa può contribuire allo scopo, a patto però di assumere consapevolezza degli interessi eterogenei coinvolti e dei molteplici, ed interagenti, fattori che determinano gli assetti dei doveri e delle responsabilità del lavoro di cura.
Il quadro è talmente complesso da indurre a rigettare ogni tentazione di generalizzazione.
Prendendo in considerazione il caso più classico, quello della coppia chiamata a stabilire la ripartizione/condivisione del lavoro di cura, l’effettiva determinazione dei reciproci doveri e responsabilità pare dipendere, in misura variabile e a seconda delle circostanze, da:
– fattori endogeni: compromessi raggiunti all’interno della coppia che trovano fonte in “patti”, impliciti o espliciti, talvolta concordemente stabiliti, ma in altri, numerosi casi, semplicemente subiti dalla parte più debole all’interno della relazione;
– fattori esogeni rispetto alla personalità (e alle preferenze) dei soggetti coinvolti nella decisione, e ai loro equilibri: fattori direttamente imputabili alla società – stereotipi, pregiudizi, “valori” – e ai mercati del lavoro e alla loro influenza, talvolta determinante, nel vincolare le decisioni di condivisione.
In particolare, per quanto più interessa, regole giuridiche e logiche economiche del mercato del lavoro sono in grado di conformare le determinazioni relative al lavoro di cura, e ovviamente, in modo simmetrico, quelle relative al lavoro c.d. “produttivo”. Le stesse possono contribuire ad assegnare ai soggetti un modello di condivisione a contenuto “predefinito”, e ad ingabbiarli in quel ruolo (Vallauri M. L. (2020), Genitorialità e lavoro. Interessi protetti e tecniche di tutela, Giappichelli, X).
Si pensi, ad esempio, sotto il profilo della regolamentazione del lavoro, quanto possa influire nella decisione sulla ripartizione dei compiti di cura una disciplina asimmetrica, all’interno della coppia che lavora, relativa alla stabilità del rapporto di lavoro, e più in generale la circostanza di essere alle dipendenze di un datore di lavoro pubblico o invece privato. Sotto il profilo dei fattori più strettamente economici, egualmente, si può intuire quanto il gender pay gap possa sbilanciare la decisione relativa ai compiti di cura nel momento in cui tale decisione implichi, da parte di chi si incarichi di tali compiti, l’abbandono o la riduzione dell’attività lavorativa.
Lavoro di cura e lavoro inserito in un ciclo produttivo si pongono insomma in dialettica. L’uno influenza l’altro e ogni decisione presa su un versante si riflette sull’altro.
Si comprende perché l’intervento regolativo sia assai difficile da realizzare, dovendo tenere in conto non solo gli interessi coinvolti (variegati e non necessariamente convergenti), ma anche gli effetti che le diverse misure producono sull’occupabilità delle persone protette, posto che la protezione si traduce, per lo più, in un costo per il datore di lavoro.
Con quali regole intervenire, allora? Secondo quale modello di regolazione?
Si può immaginare, ad esempio, un intervento improntato al modello “command and control”, con previsione di divieti e di obblighi sanzionati. Il presupposto dell’intervento è che le scelte e le preferenze espresse dai soggetti sottoposti alla regola in fondo non debbano considerarsi rilevanti, essendo da privilegiare un punto di vista esterno, fatto proprio dall’ordinamento. E ciò sia nel caso di scelta consapevolmente adottata sulla base di genuino consenso, sia – com’è ovvio – nel caso in cui la stessa si ritenga presumibilmente inquinata da influenze. Una previsione che imponga il congedo obbligatorio per il padre risponde a questa logica regolativa. Traspare un concetto di condivisione che si realizza attraverso un’eguaglianza imposta anche a soggetti recalcitranti. Soggetti che, anche se obbligati, cercheranno comunque di sfuggire al dovere, o lo assolveranno in modo formale. È pur vero, tuttavia – ed è questo un elemento a favore del modello fondato su obblighi – che l’imposizione di una condotta può avere un significato, in senso lato, educativo per i recalcitranti. Questi ultimi – o più realisticamente una parte di essi – potrebbero essere indotti a modificare le proprie preferenze dopo avere sperimentato la condivisione del ruolo di cura, nei limiti in cui l’avversione originaria derivi da pregiudizi o dal non avere mai sperimentato quel ruolo.
Si possono tuttavia immaginare anche interventi di segno diverso che incidano sulle condizioni del mercato del lavoro che oggi impediscono, o influenzano negativamente, la libertà nelle scelte di condivisione delle donne e degli uomini. La tecnica non è certo nuova, ma nel diritto del lavoro è poco praticata: si tratta di stabilire incentivi e disincentivi che orientino i comportamenti, senza imporli coattivamente.
Si può provare a leggere in questa prospettiva l’invito di una parte della dottrina a cambiare il tradizionale punto di vista delle politiche sul lavoro di cura, anche alla luce della direttiva Ue 2019/1158 del 20 giugno 2019: si è detto, in proposito, che occorre «spostare l’attenzione dagli svantaggi femminili nella sfera lavorativa ai deficit maschili nella sfera parentale» (Izzi D. (2020), Il work-life balance al maschile: a proposito di congedi dei padri, in LD, p.350). Tale obiettivo potrebbe realizzarsi senza imporre obblighi o divieti, ma stabilendo sussidi che incentivino gli uomini nella direzione della condivisione.
Un’ipotesi potrebbe essere quella di erogare somme a favore dei padri che richiedano il congedo parentale in alternativa alla madre. La misura è stata adottata dalla Provincia autonoma di Trento. Tuttavia interventi di questo tipo suscitano serie obiezioni. Anzitutto: chi controlla lo svolgimento effettivo del lavoro di cura da parte del padre? Senza un sistema invasivo di controlli, l’incentivo rischia di favorire comportamenti opportunistici. Inoltre, e l’obiezione è radicale, verrebbero compensati per il lavoro di cura i padri, mentre le madri, che sempre hanno svolto gratuitamente questo ruolo, e che continueranno in parte a svolgerlo, non lo sarebbero. Un’esigenza di giustizia induce a rinunciare al pur intuibile obiettivo incentivante dei padri.
In alternativa, per mantenere l’effetto non vincolante, ma incentivante, delle misure si potrebbero ipotizzare interventi economici pubblici di sostegno per coloro che, uomini o donne, si dedichino al lavoro di cura utilizzando lo strumento dei congedi. Tali trattamenti troverebbero finanziamento in parte tramite la fiscalità generale, in parte attraverso contributi imposti ai datori di lavoro, prevedendosi tuttavia che il datore sia sgravato dal contributo a suo carico in proporzione all’utilizzo da parte di propri dipendenti uomini dei congedi in alternativa alla madre.
Il risultato potrebbe apprezzarsi su più fronti.
Anzitutto, si determinerebbe la sopportazione da parte dei datori di lavoro di un costo sociale corrispondente al vantaggio competitivo di cui essi beneficiano in ragione del modello di (scarsa) condivisione del lavoro di cura più diffuso. In effetti, ancora oggi, impiegando un uomo, il datore di lavoro può contare sul fatto di disporre, presuntivamente, di una risorsa lavorativa che dedicherà la maggior parte del tempo e delle energie al lavoro nell’organizzazione produttiva e scarso tempo ed energie nel lavoro di cura. Per quel lavoratore il lavoro di cura non erode il lavoro produttivo. Né in termini di esercizio di diritti di cui è titolare il lavoratore (ad es., congedi), né in termini di minore disponibilità ad assecondare le esigenze aziendali (trasferte, trasferimenti, richieste di extra-time, ius variandi in genere), né infine in termini di energie psico-fisiche da dedicare al lavoro.
Specularmente, si ridurrebbe il vantaggio competitivo di cui gode il lavoratore libero di impegni di cura rispetto a chi invece di questi compiti è gravato. Il lavoro di cura stanca ed assorbe, non permette di recuperare dal punto di vista psicofisico, non permette quell’investimento verso se stessi – sia nel fisico, nell’immagine, ma soprattutto nell’elevazione culturale, nell’informazione, nell’aggiornamento – che contribuisce ad una maggiore produttività sul lavoro.
La policy che si propone, in sintesi, tenta di trasferire a carico dei datori di lavoro una parte del costo dei trattamenti economici, a compensazione del beneficio di cui essi si appropriano indirettamente, godendo di un lavoro altrui (il lavoro di cura) non remunerato, ma il cui valore va a inglobarsi nella prestazione resa dal dipendente, tipicamente, maschio e libero da compiti di cura.
Il tentativo, insomma, è indirizzato ad “internalizzare” una esternalità positiva attraverso la previsione di imposte e sussidi: il tutto in una logica che ritiene più efficace l’incentivazione dei comportamenti, piuttosto che l’imposizione degli stessi.
Tale spinta, non del tutto “gentile”, in verità, sembra trovare giustificazione e legittimazione sul piano del “diritto diseguale”, configurandosi quale insieme di misure volte alla rimozione degli ostacoli (art. 3, comma 2, Cost.) che si frappongono al riequilibrio tra responsabilità familiari e professionali tra i due sessi.
Una risposta.
[…] Marco Novella, “Spinte non sempre gentili: libertà vs. autorità nella vita delle donne e deg… […]