Venera Protopapa
Ricercatrice di Diritto del lavoro, Università di Verona
Questo breve intervento è inteso a riflettere, alla luce dell’ordinanza del Tribunale di Bologna, sul tema della legittimazione ad agire degli enti esponenziali, in particolare per quanto riguarda la natura di tale legittimazione e i criteri che ne condizionano la sussistenza, quello oggettivo della dimensione collettiva della discriminazione e dell’impossibilità di individuare in modo diretto e immediato le persone lese e quello soggettivo della rappresentatività dell’interesse leso.
La questione ha rappresentato oggetto di eccezione preliminare ed è stata risolta da parte della Corte nel senso dell’affermazione della legittimazione ad agire di Filt Cgil Bologna, Filcams Cgil Bologna e Nidil Cgil Bologna.
La legittimazione degli enti esponenziali è regolata dall’art. 5 d.lgs. 216/2003, il quale prevede che le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative dell’interesse leso possano partecipare al procedimento in materia discriminazione secondo doppio canale: in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione e in nome proprio nell’ipotesi di discriminazioni collettive, qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.
La norma costituisce attuazione dell’art. 9 della Direttiva 2000/78/CE che obbliga gli Stati Membri a riconoscere alle organizzazioni che abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della Direttiva siano rispettate la possibilità di agire per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e, come noto, rappresenta un esempio di attuazione che va oltre gli standard minimi fissati dal legislatore europeo, proprio con riferimento alla possibilità prevista per queste ultime di agire anche in nome proprio nelle ipotesi, per l’appunto, di discriminazioni collettive.
L’ordinanza di cui si discute offre spunti importanti ai fini dell’inquadramento teorico della legittimazione ad agire in nome proprio di questi soggetti.
Richiamando in merito la decisione della Corte di cassazione, n. 19443/2018, la Corte correttamente osserva che la tutela predisposta dalla Direttiva contro le condotte discriminatorie appartiene, alla stregua delle regole generali, al soggetto che subisce la discriminazione. Tuttavia, prosegue la stessa, nei casi di discriminazione a danno di un’intera categoria di soggetti, quando cioè la discriminazione pregiudica una collettività, la legge prevede anche un’autonoma ipotesi di legittimazione ad agire. Trattasi di un esempio di rappresentanza ex lege che implica la natura esponenziale dei soggetti legittimati ad agire rispetto agli interessi tutelati dalla normativa antidiscriminatoria. In questo caso, specifica la Corte, l’ente legittimato agisce come portatore di un interesse collettivo che allo stesso è imputabile e che assume, si potrebbe aggiungere, proprio con l’attribuzione a quest’ultimo della legittimazione ad agire una sua rilevanza autonoma. Sembrano doversi leggere in questo senso le affermazioni della Corte sul fatto che la posizione dell’ente esponenziale non costituisca “ex ante una posizione soggettiva in capo ai singoli, ma nasca “come posizione sostanziale direttamente e solo in capo all’ente”.
La Corte identifica, pertanto, a fronte di un’unica fattispecie di illecito, due distinte e autonome ipotesi di legittimazione ad agire. La prima ha carattere individuale e spetta, in via ordinaria, ai soggetti destinatari della tutela in materia di discriminazioni, la seconda ha carattere collettivo ed è attribuita in via straordinaria all’ente esponenziale quale portatore di un interesse collettivo che coincide sotto il profilo del contenuto con l’interesse dei soggetti lesi dalla discriminazione.
Passando ora alla questione dei criteri che condizionano la sussistenza della legittimazione ad agire, il primo di questi, richiede che la discriminazione abbia natura collettiva e che sia impossibile individuare in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione. In merito, la Corte correttamente afferma che tale criterio sia soddisfatto, nel caso di specie, in ragione del fatto che la condotta contestata determini un pregiudizio a danno di una “categoria indeterminata di soggetti, ossia (di) tutti i rider partecipanti e interessati a partecipare a forme di astensione collettiva dal lavoro”.
Sono inoltre condivisibili, i rilievi della Corte sull’inconferenza degli argomenti della resistente sulla mancanza “di rider iscritti alle (…) organizzazioni ricorrenti” o “la mancata allegazione di casi concreti di discriminazione”. Affermare che la legittimazione ad agire debba essere condizionata alla presenza di collegamenti tra ente esponenziale e soggetti lesi o all’allegazione di casi concreti di discriminazione risulta non solo del tutto estraneo alla previsione di legge, ma a ben vedere anche fortemente incoerente rispetto natura e alle finalità della legittimazione attiva delle organizzazioni di cui all’art. 5. Quest’ultima, infatti, come si è avuto modo di affermare, si aggiunge alla legittimazione dei singoli, con la finalità di garantire una più efficace tutela giurisdizionale degli interessi dei soggetti lesi dalla discriminazione, in particolare nelle ipotesi che sollevano maggiori difficoltà sotto questo profilo, vale a dire in quelle situazioni in cui la condotta discriminatoria per sua natura non consente di individuare in modo immediato e diretto i soggetti lesi.
Sul punto, è altresì importante evidenziare un’esigenza di carattere sistematico relativa al coordinamento della previsione in questione (lo stesso vale con riferimento al d.lgs. 215/03) con quelle relative alla legittimazione ad agire in materia di genere cui all’art art. 37 d.lgs. 198/06, in materia razza, colore, ascendenza, origine nazionale o etnica, convinzioni o pratiche religiose di cui all’art. 44 d.lgs. 286/98 nell’ambito delle quali il legislatore ha stabilito che la legittimazione ad agire dell’ente esponenziale sussista in tutte le ipotesi di discriminazione collettiva, anche quando non siano individuabili in modo diretto e immediato i soggetti lesi, e quella in materia disabilità di cui all’art. 4 l. 67/00 che prevede la legittimazione degli stessi soggetti nel caso di discriminazioni collettive, senza previsione di ulteriori condizioni. Riflettendo su queste previsioni alla luce della finalità perseguita da legislatore, è evidente che escludere la possibilità di esercizio dell’azione collettiva nelle ipotesi in cui, al contrario, sia possibile identificare alcune delle persone lese, appare come un autentico controsenso.
Quanto al secondo criterio, di carattere soggettivo, la Corte osserva innanzitutto che tale requisito risponde all’esigenza di evitare l’espansione eccessiva dei soggetti legittimati ad agire ed implica nel caso del d.lgs. 216/03, diversamente da quello del d.lgs. 215/03 nel quale il legislatore ha individuato i soggetti legittimati ad agire attraverso l’iscrizione ad uno specifico elenco, una verifica caso per caso della sussistenza di “un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della Direttiva siano rispettate” o, nel linguaggio del legislatore nazionale, della “rappresentatività dell’interesso leso”.
Su questa premessa, la Corte afferma da un lato che le OOSS ricorrenti nei rispettivi statuti si propongono, in generale, lo scopo di contrastare ogni forma di discriminazione nelle condizioni di lavoro e assicurare la rappresentanza ad ogni forma contrattuale di lavoro, e dall’altro che trattandosi di organizzazioni sindacali, è in re ipsa la titolarità di un interesse proprio ad agire giudizialmente a tutela del diritto di sciopero, tipica espressione dell’attività sindacale, da ogni forma di discriminazione diretta e indiretta conseguente all’esercizio di tale diritto.
Vi sono due distinte riflessioni che si possono fare merito.
La prima è che in base alla lettera della norma interna si potrebbe sostenere che nell’ipotesi delle organizzazioni sindacali la verifica della sussistenza di un interesse qualificato al rispetto del divieto di discriminazione sia stata già fatta dal legislatore in ragione della finalizzazione dell’attività di queste rispetto alla difesa dei diritti dei lavoratori in generale, e che tale esigenza si ponga solo con riferimento alle altre associazioni e organizzazioni diverse dalle organizzazioni sindacali. In questo senso sembra indicare anche il richiamo da parte della Corte della precedente formulazione della norma che attribuiva la legittimazione ad agire alle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale non prevedendo con riferimento in merito ulteriori verifiche.
La seconda riguarda il riferimento da parte della Corte della sussistenza di un interesse proprio delle organizzazioni sindacali di agire giudizialmente a tutela della libertà sindacale. Tale osservazione apre a una discussione sulla possibilità di configurare in capo alle organizzazioni sindacali, in aggiunta all’ipotesi di legittimazione straordinaria ex lege, una ulteriore ipotesi di legittimazione, questa volta ordinaria, in ragione della stretta interdipendenza tra questo interesse e l’interesse dei singoli a non subire discriminazioni a causa delle proprie convinzioni sindacali. La violazione del divieto di discriminazione per ragioni sindacali determinerebbe, secondo un ragionamento di cui si è molto discusso a proposito degli artt. 15 e 28 dello Statuto dei lavoratori, una lesione necessaria dell’interesse del gruppo nell’ambito del quale tali convinzioni trovano espressione, con la conseguenza che la legittimazione a farla valere in giudizio debba essere riconosciuta insieme al singolo e all’organizzazione che il gruppo si è dato.